Il magistrato reggino Francesco Mollace supera la settima valutazione di professionalità. L'ex pm della Dda di Reggio Calabria infatti rischiava l'espulsione dalla magistratura italiana per i presunti rapporti d'amicizia con il collaboratore di giustizia Luciano Lo Giudice, già esponente della ‘ndrangheta. 

Il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha votato a maggioranza (19 a favore, 8 contrari e 2 astenuti) la proposta A esposta dal consigliere togato Edoardo Cilenti (Magistratura indipendente), mentre la proposta B era stata avanzata dal consigliere togato Maurizio Carbone (AreaDg). 

Il caso Mollace al Csm, la proposta A

Cilenti, nella proposta A, aveva sottolineato che «va affermato che non può dirsi dimostrata la permanenza di detti rapporti anche oltre il periodo precedentemente valutato sulla base di questo unico elemento indiziario. Fermo restando la già valutata inopportunità e gravità dei fatti ascrivibili al magistrato, consistiti in relazioni improprie con un soggetto indagato per associazione mafiosa trattato dallo stesso magistrato, non vi sono elementi ulteriori idonei a formulare un nuovo giudizio negativo».

La difesa di Francesco Mollace

Prima di iniziare il dibattito, il difensore di Mollace, il procuratore capo di La Spezia Antonio Patrono, ha evidenziato tutti i temi in fatto e in diritto che, secondo lui, avrebbero dovuto portare al superamento della settima valutazione di professionalità, l’ultima prevista dall’organo di autogoverno della magistratura italiana. «In punto di diritto, la proposta della precedente commissione non tiene conto del principio del ne bis in idem, giurisprudenza acquisita anche sul piano amministrativo» ha detto Patrono in Plenum. «Non è assolutamente provato ciò che viene contestato al dottor Mollace, che negli anni 2009-2011 erano uno dei magistrati di punta della Dda di Reggio Calabria, insieme al dottor Cisterna combatteva la ‘ndrangheta, ottenendo grandi risultati» ha aggiunto.

 «I fatti certi sono che Mollace conobbe Luciano Lo Giudice nel rimessaggio di un certo Antonino Spanò; Lo Giudice è una famiglia di malavitosi, Antonino noto pregiudicato e pentito a più riprese, la cui affidabilità è quantomeno dubbia, poi c’è Maurizio Lo Giudice”. E ancora: “Mollace che in quel momento passa a un altro ufficio, parla con Cisterna, e trovano i necessari spunti investigativi per catturare Pasquale Condello, super latitante reggino. Per la mentalità di Luciano Lo Giudice lui era diventato un amico della giustizia e nella sua logica, che non è né mia né vostra, lui aveva diritto ad interloquire con queste persone».

«Dopodiché Luciano Lo Giudice - ha proseguito Patrono - viene arrestato dalla Mobile di Reggio Calabria. Siccome lui aveva collaborato con i carabinieri per la cattura di Condello, convinto di subire una ritorsione, in carcere, arrestato per interposizione fittizia, dà di matto e chiede di parlare con Cisterna e Mollace, perché ritiene di essere vittima di un'ingiustizia. Nessuno ha mai detto che qualcuno abbia mosso un dito in favore di Lo Giudice». 

La questione si complica quando Antonino Lo Giudice dice che il fratello Luciano era amico di Mollace. Qui spunta la conversazione ambientale tra Luciano Lo Giudice e il suo avvocato Pellicanò, nel corso della quale lo ‘ndranghetista dice al suo legale di dare, metaforicamente parlando, un "bacetto" a Mollace. Il penalista non porterà mai i saluti al magistrato, temporeggiando con il suo assistito». Ed infine, ha sottolineato Patrono, «Mollace in questi undici anni ha sostenuto in secondo grado indagini di altissimo profilo».

Il dibattito in Plenum

La prima a prendere la parola è stata la consigliere togata Bernadette Nicotra (Magistratura Indipendente): «Questa vicenda non può essere presa a cuor leggero. Non c'è alcuna prova dei rapporti tra Mollace e Luciano Lo Giudice. Da una singola intercettazione non può rilevarsi la mancanza di indipendenza». Poi Domenica Miele di Magistratura democratica: «Sento di porre l'accento su questa conversazione, ovvero le parole che Lo Giudice rivolge al suo avvocato:

"Se vedi don Ciccio gli dai un bacetto, Luciano ce lo ha sempre nel suo cuore". Desta allarme questa frase, sintomatiche di un rapporto stretto tra l'intercettato e il magistrato». Opinione condivisa anche da Tullio Morello (AreaDg). Mentre secondo Marcello Basilico (AreaDg) «Patrono non ha tenuto in considerazione alcuni elementi, i fatti di Mollace sono gravi e minano l'indipendenza della magistratura. Nel 2009 e 2011 Mollace aveva i requisiti di imparzialità e indipendenza? Ritengo di no». Di parere contrario l’indipendente Andrea Mirenda. «Da quei fatti sono passati 14 anni, diventa azzardato pensare che Mollace non abbia soddisfatto prospetticamente ciò che oggi siamo chiamati a valutare».

Per il consigliere di Unicost Roberto D’Auria la questione era giuridica, fondandosi sul principio del ne bis in idem: «Intervenire dopo 12 anni determina un automatismo che cozza in primo luogo con la coscienza». Michele Papa (consigliere laico) si è astenuto. Ha valutato in senso positivo la vicenda invece Claudia Eccher (consigliere laico). «La vicenda non si può rivalutare, siamo un organo costituzionale, e per il medesimo fatto deve essere previsto un meccanismo compensativo, evitando che la decisione finale sia sproporzionata rispetto alla condotta tenuta. Concordo sul ne bis in idem». Marco Bisogni di Unicost inizialmente ha dichiarato di aver pensato di sostenere la proposta B, ma durante il dibattito ha cambiato idea: “Giusto riconoscere la settima valutazione di professionalità”, evidenziando come gli elementi oggetto di valutazione fossero troppo datati nel tempo. 

Per Geno Chiarelli (AreaDg) l’intercettazione ambientale era un fatto nuovo, da valutare con il mancato superamento della settima valutazione e la risoluzione del rapporto professionale di Mollace con la magistratura. Analoga posizione espressa dal consigliere Antonello Cosentino (AreaDg). 

Infine, ha chiesto di intervenire il consigliere Dario Scaletta (Magistratura indipendente), fino a poco tempo fa in servizio presso la Dda di Palermo. «Una cosa su cui invito tutti a riflettere è la circostanza che Lo Giudice abbia avviato un percorso collaborativo con lo Stato. Il pentito quando si affida a un rappresentante dello Stato lo vede come un soggetto a cui riferire le sue cose, dall'affitto di casa ad altre situazioni personali. Ho gestito circa 50 pentiti negli ultimi dieci anni, ne so qualcosa».