L’allora ufficiale del Ros teste dell’accusa: le strategie del superboss Luigi Mancuso e le intercettazioni nel casolare di Joppolo: il maresciallo era però all’oscuro delle tresche della consorte (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Ma è dei Ros?», domandava Luigi Mancuso. Era il 29 luglio 2016, il superboss – irreperibile dal giugno di due anni prima – veniva intercettato grazie ad una microspia ambientale sistemata in un casolare di Joppolo che, successivamente, verrà scoperta durante dei lavori ad un fondo agricolo.
Mancuso era con Gaetano Molino (marito di Silvana Mancuso, figlia di suo fratello Giovanni), con il suo braccio destro, Pasquale Gallone, e con Antonio Prestia, imprenditore edile legatosi a doppio filo al clan di Limbadi dopo averne ottenuto il sostegno economico per venir fuori da un debito con «tale Monardo Filippo alias Rigoletto» che «da circa 14.000 era poi lievitato a 36.000 euro».
Luigi Mancuso, in quella sede, apprendeva che proprio Prestia avesse intrapreso un rapporto affettivo con una donna, Francesca Collotta, sposata ad un carabiniere: evidentemente un’opportunità per attingere a notizie riservate.
A ricostruire la vicenda è il maggiore Francesco Manzone. Già in servizio al Ros di Catanzaro e protagonista delle investigazioni in una fase cruciale dell’operazione Rinascita Scott, l’ufficiale depone come teste dell’accusa al maxiprocesso in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme.
Il marito di Francesca Collotta non faceva però parte del reparto investigativo d’élite dell’Arma, ma era sottufficiale in servizio in una stazione territoriale dell’Arma («assolutamente ignaro delle frequentazioni e delle intenzioni della consorte», quindi estraneo ad ogni ipotesi di reato, chiarisce più avanti il teste dell’accusa).
«In pratica – spiega il maggiore Manzone – Prestia era in difficoltà economiche, provava a giustificarsi, era percepibile il suo stato di soggezione. Diceva “Mi avete tolto dall’impiccio, ma da 20.000 siamo passati a 36.000 euro”».
In effetti, i Mancuso estinsero il debito con Monardo, ma divennero nei fatti i nuovi creditori dello stesso Prestia, che a quel punto – sintetizza il militare replicando al pm Anna Maria Frustaci – si «abbandonava ad un vero e proprio sfogo, alla luce del lievitare della cifra». Messo alle strette, per accreditarsi al capomafia, l’imprenditore suggeriva di assicurare un impiego alla donna che dal marito carabiniere, appunto, avrebbe dovuto acquisire informazioni preziose sulle indagini in corso.
«Peraltro – continua l’ufficiale – Prestia sosteneva che la donna aveva già acquisito informazioni su delle intercettazioni in corso sul proprietario di una concessionaria di auto di Soriano, un certo Filippo Tassone». Fu così che «Luigi Mancuso – rammenta il teste – diede indicazioni a Pasquale Gallone di intercedere presso l’imprenditore Sardanelli, proprietario della Intertonno srl».
Nel corso del colloquio intercettato, proprio Luigi Mancuso si domandava come mai, vista la sua lunga irreperibilità, non fosse stato ancora rintracciato e arrestato. «Secondo Antonio Prestia – rammenta ancora il maggiore Manzone – ciò accadeva perché restando libero, Mancuso garantiva “un certo ordine”».
«Ma in verità – chiarisce il pm Frustaci – oggi sappiamo che Luigi Mancuso allora era libero solo perché c’era una indagine in corso». Tornando all’impiego della donna, il boss ed i suoi uomini avrebbero elaborato una sorta di strategia per sondare e successivamente mantenere la sua capacità di acquisire informazioni riservate.
«Inizialmente – rileva l’ufficiale dei carabinieri – doveva assumere un lavoro “dipendente” per non arrivare subito ad una indipendenza economica affinché mantenesse l’interesse a reperire notizie. Prima fu assunta in un bar, col tempo poi divenne addirittura proprietaria di un bar». E ancora: «La condizione per la sistemazione della Collotta, stabilita da Mancuso, era che non dovesse divorziare dal marito».