«Io vorrei vedere imputati tutti i Mancuso, i Fiarè, i Bonavota, gli Anello, gli Accorinti, i Fiamingo, i Lo Bianco. Tutte le famiglie che voi ritenete mafiose per me sono una massa di m***a vivente e io li odio tutti da quando avevo 8 anni e non ho mai avuto contatti con tutta questa m***a di gentaglia, scusatemi il termine, ma il motivo che gli ho scritto non è questo, il motivo più importante è che si potrebbe arrivare agli esecutori materiali dell'omicidio di mio fratello Soriano Roberto e Antonio Del Giudice (in realtà Lo Giudice, ndr) con prove, perché i nomi di chi hanno ucciso mio fratello li sanno pure le pietre, con Antonio Lo Giudice».

L’otto settembre 2016 Leone Soriano, esponente di spicco dell’omonima cosca di Filandari, all’epoca detenuto a Secondigliano in seguito all’operazione “Ragno”, invia una lettera all’allora sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Camillo Falvo, oggi procuratore capo a Vibo.

«Alla Signoria Vostra, non mi fido di nessuno tranne di lei», gli scrive. E premette: «Dichiarazione a solo fine confidenziale». Insomma, non si è pentito ma cerca giustizia e alla giustizia, in via confidenziale, si rivolge.

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«Un figlio che vuole vendicare il padre con un bomba»

Lo scorso 28 novembre la Corte d’Assise di Catanzaro ha condannato all’ergastolo, per il duplice omicidio di Roberto Soriano e Antonio Lo Giudice – scomparsi il cinque agosto del 1996 – il boss di San Gregorio D’Ippona Saverio Razionale e il presunto boss di Zungri Antonio Giuseppe Accorinti. Una sentenza che si inscrive nel troncone omicidi del maxi processo Rinascita Scott. Che non ha visto solo l’imbarazzante defezione di numerose parti civili, come i Comuni di Zungri, San Gregorio D’Ippona, Limbadi e parecchi altri; per questo duplice omicidio, in particolare, non si sono costituti parte civile nemmeno i familiari di Roberto Soriano. Al contrario, Leone Soriano, oggi detenuto in regime di 41 bis, si è avvalso della facoltà di non rispondere nel corso del processo. Forse prevale ancora la paura, quella stessa che gli fece scrivere nella lettera indirizzata a Falvo: «Io voglio aiutarvi, ma non voglio distruggere la mia vita. Premesso che so che vogliono uccidermi. Vogliono uccidermi Giuseppe Accorinti, Pugliese Nazzareno, Domenico Mancuso figlio di Peppe, Ciccio Barbieri di Pannaconi».

Non solo Leone Soriano si è avvalso della facoltà di non rispondere ma il figlio della vittima, Giuseppe Soriano «che abbiamo sentito in aula – ha detto il pm Frustaci – ci è venuto a raccontare che ancora oggi crede che il padre sia scomparso e che non ha mai chiesto a nessuno delle sorti del padre né l'ha mai cercato in giro». Eppure due persone che conoscono bene Giuseppe Soriano raccontano il contrario. Si tratta dei collaboratori di giustizia Bartolomeo Arena ed Emanuele Mancuso. Entrambi raccontano «il tentativo di Giuseppe Soriano di recuperare una bomba, una bomba che doveva servire per commettere un attentato in danno di Accorinti, di Giuseppe Antonio Accorinti – spiega il magistrato –. Quindi non è un figlio che non cerca il padre scomparso, è un figlio che lo vuole vendicare attraverso una bomba»

«Vogliono uccidermi»

Leone Soriano era convinto: «Credo che mio fratello è stato sotterrato a Briatico in contrada Brace, sotterrato sotto la condotta fognaria, che non passa sotto le abitazioni, ma passa da un'abitazione all'altra, se voi avete dei macchinari particolari che si può controllare se sotto terra ci sono ossa, da lì risalirete automaticamente agli esecutori materiali di questi due omicidi».

Ma perché Briatico? Il luogo pensato da Leone Soriano non è casuale, ricorda il pm Annamaria Frustaci nel corso della requisitoria. A Briatico, infatti, il 25 settembre del 1995, in contrada Brace, era avvenuta una sparatoria che aveva condotto Saverio Razione in ospedale a casa di un colpo di pistola che lo aveva raggiunto al volto e Giuseppe Fiorillo (che era con lui) è finito sulla sedia a rotelle. Una serie di elementi, elencati dal pm, portano a individuare Roberto Soriano tra gli autori dell’agguato, che avrebbe eseguito «su mandato di Peppe Mancuso».

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“Pino il ragioniere” riconosce il cadavere di Antonio Lo Giudice

La requisitoria del pm Frustaci ha rievocato la tragica e brutale vicenda del duplice omicidio Soriano-Lo Giudice allegando diversi elementi narrativi e di colore. La Renault Clio di Roberto Soriano venne ritrovata, poco prima della mezzanotte del 6 agosto 1996, dai fratelli della vittima in contrada Indu, sulla strada interpoderale del bivio di Filandari-Tropea. L’auto era stata data alle fiamme e all’interno c’era un corpo carbonizzato. A capire per primo che quel cadavere annerito apparteneva ad Antonio Lo Giudice fu un uomo che si era portato sul luogo del delitto e aveva sbirciato nell’auto pur non appartenendo né alla scientifica, né alle forze dell’ordine: Giuseppe Salvatore Galati, detto “Pino il ragioniere”, vertice del locale di Piscopio.

La libertà del capo del “locale” sul luogo del delitto

Siamo nel 1996, il pm fa notare «come venivano condotti gli accertamenti all'epoca dei fatti, senza nulla togliere, oggi abbiamo degli investigatori che evitano che negli stessi siti dove avvengono i sopralluoghi possano circolare delle persone». Fatto sta che all’epoca Galati si è avvicinato tranquillamente al corpo e poi ha parlato con gli inquirenti: «Conosco da parecchio tempo Lo Giudice Antonio, oltre che mio compaesano è anche amico. La sera che è stato rinvenuto il cadavere bruciato mi sono avvicinato. Mi sono avvicinato e ho constatato che lo stesso indossava una catenina e un orologio, che ho anche visto bene e non ho dubbi, non ho dubbi che appartenevano a Lo Giudice Antonio».

Salvatore Giuseppe Galati, negli anni successivi a quel momento diventerà «un esponente di vertice della 'ndrina dei Piscopisani», condannato per associazione mafiosa con la sentenza Crimine della Dda di Reggio Calabria.

«Pensate – fa notare il pm Frustaci –, negli anni Novanta, nel '96 è la persona che riconosce Antonio Lo Giudice, che vedremo essere stato indicato dai collaboratori di giustizia, dallo stesso Moscato Raffaele, che è appartenente al locale di Piscopio, come un uomo d'onore del locale di Piscopio, a riconoscere il corpo per il tramite di una catenina».