L’associazione mafiosa al centro del maxiprocesso. Il procuratore in aula. L’inizio è del pm Antonio De Bernardo, al suo fianco anche la collega Annamaria Frustaci e i vertici dell’Arma dei carabinieri e del Ros (ASCOLTA L'AUDIO)
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Il Crimine di Vibo Valentia, l’organizzazione unitaria e verticistica della ‘ndrangheta nella provincia di Vibo Valentia, cuscinetto rispetto ad altre enclave strategiche, il ruolo apicale assunto da Luigi Mancuso (il presunto superboss la cui posizione è stata stralciata nel corso del dibattimento per confluire nel procedimento Petrolmafie), i suoi addentellati nel mondo della politica, della massoneria, dell’imprenditoria e delle professioni. Inizia da qui la requisitoria della pubblica accusa al maxiprocesso Rinascita Scott. Presente il procuratore capo Nicola Gratteri, è il sostituto procuratore Antonio De Bernardo, affiancato dalla collega Annamaria Frustaci e dal pm Andrea Mancuso, a dare il primo impulso. In aula anche i vertici del Ros Centrale, del Ros di Catanzaro e del Comando provinciale di Vibo Valentia (ovvero le forze investigative dell’Arma la cui attività rappresenta il caposaldo dell’impianto imbastito dai pubblici ministeri). Richiama l’esempio di Giovanni Falcone, il pubblico ministero e spiega come il valore del maxiprocesso Rinascita Scott «non è nei numeri ma nella sua sostanza».
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«Chi distingue la ‘ndrangheta dei rituali e la ‘ndrangheta degli affari, non ha capito nulla di ciò di cui stiamo parlando», l’incipit del pm De Bernardo: «È la stessa cosa, è ’ndrangheta. La ‘ndrangheta – spiega – è un fenomeno predatorio, che implica il rapporto tra un predatore ed una vittima sulla quale viene esercitata violenza. Ma la ‘ndrangheta – aggiunge – è anche fenomeno di protezione, un “consumatore di protezione”, in una logica di scambio. Ed è anche per questo motivo che noi contestiamo il reato associativo anche nei confronti di alcuni della stessa associazione sono vittime».
Il magistrato spiega in avvio il contesto giurisprudenziale che induce la Dda di Catanzaro a muovere per la prima volta sul territorio della provincia di Vibo Valentia una contestazione di tale natura. Le radici nei processi storici istruiti in particolare sul territorio di Reggio Calabria, da Armonia a Crimine, fino a Mandamento. Destruttura, il magistrato, le sentenze della Cassazione nell’interpretazione richiamata dalle difese nel corso del dibattimento. Spiega il valore dell’affiliazione, delle doti e dei livelli dell’organizzazione che legittimano «il potere sul territorio. E il suo potere di intimidazione è tanto più forte quanto forte è il vincolo che attraverso l’affiliazione e il rispetto di certe regole tiene insieme un certo gruppo di criminali».
Sempre il pm: «In questo processo ci sono le prove di tutto, abbiamo un fiume di argomentazioni su come questo armamentario di riti e regole diventa lo strumento per il controllo del territorio. Ovviamente è il potere di fatto quello che conta, ma questo potere senza quello stesso armamentario non può reggere». Il pubblico ministero irrobustisce la narrazione attraverso una serie di slide, che mostra il “dizionario” della ‘ndrangheta, le doti, la struttura dal locale al Crimine: «Se non riusciamo a debellare questo fenomeno è solo colpa nostra», incalza. Un patrimonio conoscitivo – quello che la Dda di Catanzaro offre al collegio – che passa attraverso le sentenze del passato e i collaboratori di giustizia, dai primi escusso al maxiprocesso, Pino Vrenna e Luigi Bonaventura, all’ultimo in ordine di tempo, Pasquale Megna. Tutto ciò si incrocia con il materiale investigativo vecchio e nuovo, che crea un legame evidente tra i locali ‘ndranghetistici della provincia di Vibo Valentia e il Crimine di Polsi primigenio. Poi sarebbero nati gli altri, iniziando da quello di Cirò. E, in ultimo, quello successivamente gemmato dal clan Mancuso sul suo territorio.