«Ha fatto tutto lui (...). Io niente, muta, mi sono sentita usata». Ha appena tredici anni, Daiana (nome di fantasia), quando i suoi sogni d'adolescente s'infrangono rovinosamente negli occhi pieni d'interesse del giovane Davide. Lui ha sei anni in più di lei e la voglia di conquistare a tutti i costi quella adolescente inquieta, che lo guarda incantata.


La vita non è facile per Daiana. La separazione dei genitori provoca in lei una ferita profonda. E, come sale su quella fessura dell'anima, arriva lo spettro della solitudine, per una ragazzina i cui genitori si mostrano lontani. Distratti, forse, dall'esigenza di ricostruire le rispettive vite, dopo il fallimento del matrimonio. Daiana, allora, incrocia gli occhi di Davide e si aggrappa a lui, sperando le possa dare l'amore di cui ha bisogno. Ma la loro è una relazione claudicante sin dai primi giorni. I germi del sentimento vengono ben presto soffocati dalle spine della paura. Quella che s'impadronisce di Daiana, facendole temere di poter perdere il suo Davide. Lui scopre che la ragazza scambia qualche messaggio con un altro giovane. È il momento della rottura. Quei sogni agognati si sciolgono come neve al sole della gelosia di Davide. Sembra che tutto sia finito per sempre. Ed invece lui torna, presentando a Daiana un prezzo da pagare per ottenere il suo perdono: avere rapporti sessuali con lui e con alcuni amici.

 

13enne violentata a Reggio: tra gli arrestati anche il figlio del boss Iamonte NOMI-FOTO


Daiana non ha scelta: prendere o lasciare. Accettare quella richiesta o perdere per sempre il suo amato. Non ha la forza per opporsi a quell'assurdo ricatto. Non è capace di farlo per la sua tenera età e per quella fragilità che l'accompagna da tempo e che le fa credere che il solo modo di lavare le sue colpe (aver messaggiato con un altro giovane) sia ascoltare Davide. Questi, fra l'altro, la convince ad inviare delle foto che la ritraggono in pose "compromettenti" tramite una chat. È un modo per poterla vincolare ancora di più.


Colui il quale avrebbe dovuto proteggerla, amarla, coccolarla, farla sentire principessa, si trasforma nel suo incubo peggiore. Daiana ha un rapporto sessuale prima con Davide e poi con un altro amico che è con lui, Antonio. Non accade una volta sola. Ma è soltanto la prima di una lunga, lunghissima serie di violenze ed abusi che lasciano nel cuore di Daiana una profonda lacerazione. Voleva farsi perdonare ed è finita, ci racconta l'indagine, in un vortice di perversioni di ragazzi senza scrupoli.


Le parole della ragazza colpiscono come pietre in pieno viso: «Speravo finisse al più presto, cioè lo faccio e mi caccio il pensiero Era questo quello che pensavo». E c'è un colore che resta impresso nella mente di Daiana. Quel colore sinonimo di femminilità, di delicatezza. Il rosa, tinta che la giovane donna porta con sé ricordando fosse quella delle coperte del letto dove hanno abusato di lei. Un letto che le è toccato rifare, come non fosse accaduto nulla. Il racconto (che non riportiamo per nulla nelle sue parti più intime, per ovvi motivi) diventa agghiacciante: «Non potevo fare niente, non potevo parlare, non potevo fare niente quando loro si sono spostati sono subito corsa in bagno, mi sono pure messa a piangere».

 


Giudici e psicologi capiscono che quel racconto sgorga puro come acqua di sorgente. Daiana, però, è un fiume in piena. Tutto parte dalla brutta copia di un tema, lasciata distrattamente sulla scrivania di casa. La madre di Daiana lo intravede ed inizia a leggerlo. Più va avanti nella lettura, maggiore è il senso di impotenza che prova. La sua bambina accusa, in modo neppure troppo velato, sia lei che il padre, di non essere stati presenti. Anzi, di non aver capito nulla o quasi del demone che aveva strappato i suoi anni più belli. Quella presa di coscienza è come una scossa per la donna che, però, non riesce ancora a destarsi completamente dal torpore. Perché nella storia di Daiana, ad un certo punto, entra un altro personaggio. Uno di cui lei si fida. Che pensa non possa farle del male, proprio perché conosciuto grazie alla madre, che lavorava alle dipendenze del padre di lui. È Giovanni Iamonte, figlio del boss di Melito Porto Salvo, Remingo. Dici Iamonte e nella cittadina jonica in tanti, troppi si voltano dall'altra parte e restano in silenzio, soggiogati dalla paura, ammutoliti dal timore che incute una famiglia che da troppi anni ormai fa il bello ed il cattivo tempo per le vie di Melito e dintorni. Anche Daiana non parla perché terrorizzata. Di lui racconta: «Giovanni, mentre Davide rideva, mi dice che aveva saputo in giro delle cose che io avevo fatto, cioè gli incontri precedenti con gli amici di Davide, lui era venuto a conoscenza di queste cose e mi ha detto "Adesso ti diverti pure con me"». Daiana si oppone, nonostante sappia che Giovanni è il figlio del boss. Ma lui tocca le corde più delicate dell'anima, la famiglia. Quella stessa che Daiana sente lontana, ma che rimane sangue del suo sangue: «Come, tu non vuoi che tuo padre viene a sapere tutto quello che hai fatto vero?».

 

La giovane rimane di sasso. Agli esperti, che l'ascoltano con tutte le cautele del caso, disegna un'immagine di Giovanni Iamonte che non abbisogna di altri colori: «Mi sono spaventata, anche perché lui ha uno sguardo non lo so... uno sguardo brutto... lui guarda una persona è molto arrabbiata, così con le pupille di fuori mi guardava e io mi sono spaventata». Quell'ordine, perentorio e vile, arriva senza mezzi termini: «Ora tu ti metti qua e facciamo quello che dobbiamo fare se fai la brava».

 

IL COMMENTO L'onore, il rispetto e lo stupro di gruppo: ecco la vera faccia della ‘ndrangheta


È una discesa agli inferi quella di Daiana, specie dal febbraio 2014. Anche perché quel suo cuore così smarrito trova una nuova strada nello sguardo di un giovane di cui s'invaghisce. Inizia una relazione che dura poco tempo. Quello necessario al gruppo di violentatori per chiamarlo, portarlo in una strada buia e nascosta e riempirlo di botte, tanto da mandarlo in ospedale. Daiana è roba loro. Lui comprende e se ne allontana. Per la ragazzina è un nuovo tormento tanto che, tempo dopo, conosce un altro giovane ma – per paura che possa accadere la stessa cosa - non lo incontra neppure.


Anche a scuola, il suo rendimento ne risente. Gli insegnanti si accorgono che qualcosa non va. Un giorno fugge via e si rifugia in bagno, crollando in un pianto dirotto e tirando pugni contro il muro. È un'anima fatta a brandelli dalla violenza, quella di Daiana. Quelle coperte rosa diventano soffocanti, come il segreto che è costretta a portare con sé. Fino a quando i genitori non apprendono l'orrore vissuto dalla figlia. Il padre di Daiana affronta alcuni del gruppo, le violenze cessano, ma la presenza di Iamonte incute talmente timore da non permettere di rivolgersi subito ai carabinieri. Quei genitori, accusati di colpevole assenza, comprendono che è tempo di prendersi cura di una figlia per troppo tempo rimasta sola. Vanno in caserma e raccontano tutto, anche grazie ai consigli di un avvocato e un'informazione confidenziale giunta in caserma. Partono le indagini che dimostrano incroci di tabulati nei giorni e nelle ore indicati dal diario di Daiana che, dopo qualche tempo, inizia ad annotare ogni singola violenza. Si raccolgono testimonianze che confermano tutto. Si scopre addirittura che uno degli indagati è minorenne. Ed è anche tra i più violenti. Si scopre che un altro dei soggetti coinvolti chiede aiuto al fratello poliziotto perché apprende dell'indagine. Questi gli consiglia di non dire nulla. Si scopre, infine, che il rampollo della famiglia Iamonte - lo scrive il gip per delinearne la personalità - non è nuovo ad incontri sessuali di gruppo, rivolgendosi anche ad un transessuale abbastanza noto negli ambienti del meretricio reggino.


Oggi Federico Cafiero de Raho, i suoi magistrati e i carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria, assieme a quelli della Compagnia di Melito Porto Salvo, mettono la parola fine ad una storia squallida, umiliante per un'intera comunità. Perché, ad essere colpevoli, sono certamente gli aguzzini che hanno tolto tutto a Daiana. Ma lo sono anche coloro che, pur sapendo, hanno taciuto. Non importa se per paura o mero disinteresse. Il silenzio consapevole è sinonimo di complicità. E coloro che non hanno parlato si sono resi complici di reiterate violenze sul corpo e nell'anima di una tredicenne desiderosa soltanto di un amore che la facesse sentire al sicuro.