Maria era circondata. C’è una topografia elaborata dai carabinieri, e acquisita agli atti dell’indagine Maestrale-Cartagho, che desta impressione e che lo dimostra. I terreni dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, inghiottita dalla lupara bianca il 6 maggio 2016, unitamente a quelli ereditati dal marito Ferdinando Punturiero, morto suicida esattamente un anno prima, sono esattamente al centro di una vasta rete di latifondi tutti riconducibili, direttamente o indirettamente, al clan Mancuso di Limbadi. È un elemento indiziario di particolare importanza per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, in un contesto controllato dalla ‘ndrangheta nel quale «la proprietà terriera – scrivono i pm Antonio De Bernardo, Andrea Buzzelli ed Annamaria Frustaci – non solo rappresenta un importante indotto economico, ma altresì costituisce l’unità di misura della rilevanza criminale, laddove l’egemonia nella proprietà terriera funge da cartina tornasole dell’egemonia criminale».

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Maria come Matteo

La malavita vuole la terra e se ne impossessa con la forza: per questo, il 9 aprile 2018. fu ucciso, attraverso un’autobomba, Matteo Vinci. Avvenne in contrada Macrea, a pochi chilometri in linea d’aria, da località Montalto, dove si consumò il rapimento e, probabilmente, l’omicidio di Maria Chindamo. Indagato per il concorso nell’omicidio dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, è Salvatore Ascone, narcotrafficante legato a doppio filo coi Mancuso, unitamente al figlio Rocco. Il più importante tra i suoi possedimenti ha il suo accesso proprio di fronte al cancello dell’azienda agricola della donna che – secondo la ricostruzione accusatoria – sarebbe stata fatta sparire in modo feroce e straziante. Limitrofe, però, vi sono altre terre dei Mancuso: quella, ad esempio, confiscata a Diego, fratello del superboss recentemente scarcerato Giuseppe detto ‘Mbrogghja e di Rosaria Mancuso, condannata in primo grado all’ergastolo proprio per l’attentato costato la vita a Matteo Vinci. Limitrofi, poi, anche i terreni sequestrati a Giovanni Molino, genero di Giovanni Mancuso, ritenuto una sorta di ministro delle finanze del clan, e zio di Diego.

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Il padrone di località Montalto

Ascone, è l’assunto degli inquirenti, sarebbe stato in procinto di acquisire altri terreni adiacenti al suo latifondo, ovvero quelli intestati agli eredi di Michele La Rosa, vittima di un agguato avvenuto a Rosarno nel 1994. Avrebbe altresì utilizzato come se fossero i propri – e per questo fu ripetutamente denunciato per danneggiamenti e pascolo abusivo – anche quelli degli altri vicini.  «Invero – scrivono i pm – l’ingente rilevanza di Ascone Salvatore nella gestione della Località Montalto, deve essere necessariamente messa a sistema con le dichiarazioni di Mancuso Emanuele, il quale nel confermare il predominio di Ascone nella zona in questione, riferisce che quest’ultimo era stato individuato da Mancuso Diego e Mancuso Pantaleone l’Ingegnere a controllare la zona di località Montalto, pretendendo una quota estorsiva sulle varie compravendite di terreni».

Malavita e usucapione

È molto interessante quel che racconta Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone detto l’ingegnere, in un interrogatorio del 23 ottobre 2018. Ascone «al fine di evitare misure di prevenzione – è la sintesi dei pm De Bernardo, Buzzelli e Frustaci sulla base delle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di Vibo Valentia – pagava i terreni in contanti pur lasciando quali formali intestatari i proprietari, esercitando a distanza di anni il diritto di usucapione».

I soldi nei bidoni…

I carabinieri hanno indagato in profondità nel mondo di quel trafficante di droga già al centro delle indagini, quasi sempre asfittiche visti gli esiti processuali, coordinate da altre Procure. Alcune intercettazioni, su altri pezzi grossi della malavita, spiegano come quelle terre possano nascondere anche un tesoro. Inoculando un trojan sul dispositivo cellulare di Michele Galati, figura di punta della ‘ndrangheta a Mileto, captavano una conversazione nella quale era coinvolto anche Peppone Accorinti, il presunto sanguinario boss del Poro. «In tale scambio di battute – è la sintesi degli investigatori – emerge altresì il riferimento al fatto che Ascone Salvatore detenga ingenti somme di denaro sotterrate in dei bidoni “Soldi… guarda qua… soldi… Ne ha due o tre fusti sotterrati, piccolini! Quelli là”».

E droga… E armi…

Forse non vaneggiavano, alla luce delle dichiarazioni di Emanuele Mancuso: «Ancora il figlio Rocco mi disse che Ascone era solito utilizzare la motopala per scavare fosse dove atterrare bidoni contenenti droga (finanche sostanza da taglio asiatica, che fa gli stessi effetti della cocaina) ed armi (fucili, mitra, pistole, ecc…)». Insomma, terre per ostentare il potere sul territorio, per farci pascolare gli animali, per interrare soldi, droga e armi.

Il doppio movente

Ascone, con il figlio all’epoca dei fatti minorenne, accusato del concorso dell’omicidio di Maria Chindamo. La terra, il movente. Mandante, per gli inquirenti, il suocero di Maria, Vincenzo Punturiero, che non potrà difendersi perché deceduto: le imputava la responsabilità morale del suicidio del figlio Ferdinando, che non sopportò la fine del matrimonio con Maria. Gli eventi precipitarono due giorni prima del delitto, quando con un post sui social divenne pubblica la nuova relazione instaurata tempo prima dalla vittima. Due moventi convergenti, la lupara bianca che non risparmia neppure le donne.