Le intercettazioni dei carabinieri sul presunto patto tra i Mancuso ed i Bonavota che lo avevano «a portata di mano». Il summit di Sant’Onofrio per adottare «nuove strategie criminali comuni», mentre in Piemonte venivano assoldati i sicari stranieri (ASCOLTA L'AUDIO)
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Pizzo Calabro, un gazebo. Lì, abitualmente, si ritrovano pezzi importanti della malavita locale, federati al più potente clan Bonavota di Sant’Onofrio, che ambiscono a costituire una «società autonoma da quella madre». I carabinieri che lavorano per la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro lo sanno e ottengono il via libera per sistemare all’interno una microspia. Il 19 maggio 2017 captano una conversazione importante: Luca Belsito, «vecchio appartenente alla ‘ndrangheta», parla col il nipote omonimo, indicato come un «soggetto molto attivo della ‘ndrinanapitina»; al colloquio partecipano un loro congiunto, Nicola Stanganello, ed un loro sodale, Onofrio D’Urzo.
Il momento storico
La fase storica è particolare: nella provincia di Vibo Valentia l’eco della clamorosa collaborazione con la giustizia di Andrea Mantella, l’ex padrino emergente che aveva sfidato i vecchi mammasantissima, scatena il panico tra i clan di un territorio nel quale il «Crimine» era passato da Pantaleone Mancuso “Scarpuni” a quelle dello zio Luigi, scarcerato cinque anni prima dopo diciannove anni di detenzione e destinato a diventare il fulcro delle più importanti indagini istruite dal pool del procuratore Gratteri. I Bonavotasono, storicamente, il clan più temuto, per potenza di fuoco ed economica, tra quelli insofferenti, e per questo rivali, allo stradominio dei Mancuso. La conversazione nel gazebo, agli atti dell’indagine Maestrale, è però illuminante, perché – sintetizzano i carabinieri nell’informativa vergata dal capitano Alessandro Bui – spiega come di fronte ad un pericolo incipiente e comune anche acerrimi nemici possono deporre le armi e diventare alleati: e Andrea Mantella, un pericolo per tutti, lo era anche prima che riempisse cataste di verbali con i magistrati. Spiega però, anche e soprattutto, come lo stesso Mantella fosse destinato ad essere ucciso addirittura prima che la sua collaborazione con la giustizia si fosse concretizzata.
«A portata di mano»
Dice D’Urzo: «Ma perché si è buttato Mantella? Ma per loro si è buttato Mantella! Che lo avevano chiamato per ammazzarlo… Perché?». Seguono dei commenti, poi è Belsito il vecchio a prendere la parola: «I Bonavota con i Mancuso non andavano d’accordo. Ultimamente quando il Mantella era in carcere… Allora, da quando gli hanno mandato [incomprensibile]… Allora poi volevano toglierselo i Mancuso… Allora avevano tentato… Allora si sono messi d’accordo con loro… Dice, con questa scusa che voi lo avete a portata di mano, dice: dovete togliercelo davanti… E facciamo pace di nuovo…». E poi, sempre il nonno: «Quando se ne è accorto Mantella si è buttato pentito!». C’è una frase più di altre che indica lo spessore criminale dei soggetti di cui si parla e la pronuncia Belsito il giovane: «Gli hanno tenuto testa ai Mancuso ed è cazzo di qualche altro che gli va a tenere testa…».
Il riscontro dei carabinieri
I carabinieri di Vibo hanno alcuni riscontri sul contenuto di questa conversazione. In particolare grazie ad altre intercettazioni attivate sull’utenza telefonica in uso a Domenico Cugliari detto “Scric”, considerato una figura importante dei Bonavota. Era proprio “Scric” a curare i viaggi dei familiari di Mantella per i colloqui con il congiunto all’epoca detenuto in alta sicurezza nel carcere di Spoleto, ovviamente prima che del suo clamoroso pentimento. Per gli investigatori dell’Arma era proprio questo che intendeva Belsito il vecchio quando diceva che lo avevano «a portata di mano». Le conclusioni tratteggiate nell’informativa Maestrale sono eloquenti: «Quanto sopra esposto, a parere di questa polizia giudiziaria, riscontra a pieno titolo quanto affermato nella conversazione sopra riportata, ovvero l’intento dei Bonavota di sostenere quanto più possibile il Mantella durante il periodo detentivo, per poi prendere provvedimenti nei suoi confronti, in accordo con i Mancuso, una volta che questi riacquisiva la libertà».
Il summit a Sant’Onofrio
Che da tempo fosse in atto un processo di riappacificazione tra clan, gli inquirentilo ricavano anche da altre importanti emergenze investigative. Illuminante il «summit di ‘ndrangheta» che si tenne in un’azienda agrituristica di Sant’Onofrio, quindi nel territorio dei Bonavota e che, secondo quanto emerge dall’indagine Maestrale, avrebbe visto protagonisti, oltre il padrone di casa, Domenico Bonavota, Peppone Accorinti, capo locale di Zungri, Gregorio Niglia detto Lollo, referente di Accorinti su Briatico, Domenico Antonio Ciconte detto Berlusconi, proveniente da Soriano, il boss di Filadelfia Tommaso Anello assieme al figlio Rocco, Gregorio Gasparro, esponente di spicco del locale di San Gregorio d’Ippona. Correva il 30 novembre 2015. Le intercettazioni – annotano i carabinieri - «lasciano intendere senza ombra di dubbio che in Sant’Onofrio, nel regno dei Bonavota, gli stessi avessero preso parte ad un summit ‘ndranghetistico, all’interno del quale, oltre ad essere discusse le nuove strategie criminali comuni da adottare, veniva nuovamente cementata l’alleanza tra le diverse consorterie mafiose operanti nel territorio vibonese, dopo un periodo di contrasti e divisioni».
Il piano svelato da Guastalegname
Le date sono importanti, perché quel summit si tenne più o meno nel periodo indicato («Natale 2015») da uno dei più recenti collaboratori di giustizia, Antonio Guastalegname, che riferì del piano dei Mancuso di «sistemare la situazione su Vibo», procurando armi ed esplosivi per colpire le nuove leve e, in particolare, Andrea Mantella, prossimo a lasciare il carcere. Sarebbero stati assoldati nell’Astigiano due sicari stranieri, un kosovaro ed un albanese, per 5.000 euro ciascuno. Sarebbero stati reperiti ordigni telecomandati al prezzo di 6.000 euro ciascuno. Andrea Mantella, però, nel maggio del 2016, chiese di parlare con i magistrati e fu la svolta. Sentito a verbale e in aula, in particolare nel maxiprocesso Rinascita Scott, ha però sempre ribadito con fermezza di aver intrapreso la collaborazione con la giustizia non per il timore di essere ucciso, ma perché aveva compreso gli errori ed il male compiuto, ripudiando così il grande inganno della ‘ndrangheta.