Ci sono le minacce di ritorsioni e i nomi di qualche casato pesante di ‘ndrangheta nella fine tragica di Massimiliano Marucci, imprenditore romano morto suicida per un’estorsione di 600mila euro e  per avere creduto di avere esposto se stesso e la sua famiglia alle vendette del crimine organizzato calabrese. È una storia che puzza di mafia, di quelle storie che ormai riempiono le pagine delle cronache di mezzo Paese. Una storia che però, appena sotto la superfice, nasconde una banda di criminali comuni (due dei quali calabresi) che per aumentare la pressione sulla propria vittima e convincerlo così ad accollarsi debiti che non gli appartenevano, ha simulato un’appartenenza che non avevano. Un espediente che sembra preso da una serie tv di seconda scelta ma che è bastato a fare breccia nell’animo dell’imprenditore, così terrorizzato dell’interesse dei «calabresi» per la sua vicenda, da implorare uno dei propri aguzzini di lasciare in pace il proprio figlio ignaro di tutto: «Consentitegli di terminare gli studi» dirà intercettato l’imprenditore dopo avere ceduto al ricatto.

C’è un ammanco di 150mila euro ad accendere la spirale di minacce e vessazioni in cui finirà risucchiato Marucci. Un furto che la stessa vittima aveva messo in piedi nei confronti della società per cui lavorava e che, una volta venuto a galla, aveva messo l’imprenditore con le spalle al muro. Chiamato a rispondere dell’ammanco, Marucci si trova davanti al suo ex capo (implicato in questa indagine ma finito in arresto qualche settimana prima per un altro procedimento) che si limita a riferire di avere ceduto il debito «ai calabresi». È la prima goccia. Avvicinato da un altro personaggio, Samuele Melara, legato alla medesima azienda (una ditta che si occupa di prodotti ittici sul litorale romano) con la mansione di recupero crediti, Marucci inizia il suo personale viaggio nell’inferno di una finta mafia che agisce e si atteggia come la mafia vera e che lo porterà ad impiccarsi all’interno della sua auto.

È il dicembre del 2022, mancano pochi giorni a Natale e Marucci prova a chiedere tempo per restituire i soldi. Richiesta che Malara, originario di Palmi nel Reggino, respinge per conto dei “calabresi” di cui farebbe parte: «Ma che con loro prendo tempo? – dice intercettato dalle forze dell’ordine Malara – che è una banca? Questi ti dicono 70 e poi ne vogliono 100… non è un accordo con le banche, non è che c’è la proroga, che vai dall’avvocato». Passano pochi giorni e Marucci viene convocato ancora una volta da Melara che «gli comunicava – scrive il gip nell’ordinanza che portato agli arresti di 5 persone – che il debito nei confronti dei calabresi era salito a 450 mila euro. Di fronte alle proteste del Marucci, Melara gli ribatteva che in caso di rifiuto i “calabresi” avrebbero effettuato ritorsioni nei confronti dei suoi familiari aggiungendo che si erano già procurati gli indirizzi della di lui compagna e del fratello». Il meccanismo che stritolerà Marucci è ormai partito.

Ancora pochi giorni ed in scena entra un altro calabrese, Francesco Primerano, originario di Pizzo. È lui ad accompagnare Marucci per un nuovo incontro risolutore con i calabresi. Solo che a quell’incontro, la somma pretesa dalla banda sale fino a 600 mila euro. «Al mio diniego di firmare – dirà Marucci nella denuncia che darà il via alle indagini del Roni dei carabinieri – Melara, Protani e Primerano si sono arrabbiati e hanno cominciato a minacciarmi, anche di morte. Primerano ha minacciato anche di tagliarmi, sul momento, una mano. Di fronte a tale reazione – raccontava ancora Marucci che da qualche giorno, per paura di essere aggredito, aveva preso a dormire a casa del fratello –  io ho detto ai miei aggressori che mi avrebbero potuto uccidere ma che non avrei firmato. Tale mia risposta ha esacerbato ulteriormente i tre e hanno cominciato a proferirmi minacce rivolte anche nei confronti dei miei familiari. A questo punto ho deciso di firmare».

È l’inizio della fine. Marucci, convinto dalle minacce dei suoi aguzzini di essere finito nelle mani del crimine organizzato calabrese, non regge la tensione. Ha paura che all’estorsione di 600mila euro già andata in porto possano seguire altre richieste di denaro che potrebbero mettere in pericolo la vita dei suoi cari.

Per i giudici del tribunale di Roma che ne hanno disposto l’arresto contestando l’aggravante del metodo mafioso, né su Malara né su Primerano «sono stati acquisiti elementi rivelatori della loro appartenenza o contiguità con contesti di criminalità organizzata». Non erano boss, ma si atteggiavano a boss, seguendo un copione preciso. Un copione recitato così bene che convincerà l’imprenditore a togliersi la vita poco meno di un mese più tardi.