Il delitto si consumò 32 anni fa. Per gli inquirenti Vincenzino Zappia fece da spalla al killer del giovane boss. L’uomo condannato a 13 anni dovrà affrontare un altro procedimento
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Arriva dal passato, dagli anni violenti di quella seconda guerra di ‘ndrangheta che a Reggio è costata 800 morti ammazzati in 5 anni, il guaio che potrebbe condannare Vincenzino Zappia a decenni dietro le sbarre.
Per inquirenti ed investigatori, è stato lui nel 1988 a fare da spalla al killer Luciano Pellicanò nell’agguato in pieno centro, a pochi passi dal museo cittadino, che è costato la vita al boss Giuseppe Cartisano. A incastrare Zappia non sono le rivelazioni di un nuovo pentito, ma le nuove tecniche che hanno permesso di “far parlare” i reperti che negli anni Ottanta le conoscenze medico scientifiche non riuscivano ad interrogare.
L'analisi del dna
In primo luogo quei campioni di sangue, prelevati all’epoca sul luogo dell’agguato che oggi grazie all’analisi del Dna collocano senza margine di dubbio Vincenzino Zappia sulla scena. Uno degli episodi più violenti della stagione di sangue della seconda guerra di ‘ndrangheta. Per eseguire la condanna a morte di Giuseppe Cartisano – un “traditore” passato dallo schieramento destefaniano a quello degli Imerti – i due killer non avevano esitato ad entrare in azione in pieno giorno, all’interno dalla frequentatissima gelateria Malavenda.
Il profilo di Vincenzino Zappia
Lì lo avevano sorpreso e freddato, salvo poi incappare in una pattuglia dei carabinieri, con cui avevano ingaggiato uno scontro a fuoco. Uno dei killer, Pellicanò, ci aveva rimesso la vita. Zappia, nonostante una ferita alla gamba, era invece riuscito a dileguarsi e a far perdere le proprie tracce. Le stesse che oggi condannano Zappia, colonna storica del clan De Stefano e “delegato” in città del capocrimine Giuseppe dall’arresto del 2008.
Due “fratelli di ‘ndrangheta” a detta del pentito Enrico De Rosa, che con Zappia ha avuto un rapporto personale e diretto. «Forse – afferma il pentito - la figura poi è stata coadiuvata quando è uscito Giovanni De Stefano», ma anche sul Principe, Zappia ha dimostrato di avere un ascendente sconosciuto agli altri affiliati. E soprattutto di potersi permettere libertà inammissibili ai più. Zappia si riferiva a De Stefano chiamandolo "Il Principe", ma – spiega il collaboratore - « tra virgolette a sfottò, perché diceva che non aveva lo stesso piglio e lo stessa cosa di Giuseppe de Stefano, spesso faceva il paragone e diceva che si metteva appresso alle cazzate, che era poco,.. era un po' inconcludente».
L'accusa di omicidio
Addirittura, poteva permettersi di mettere pubblicamente in discussione atteggiamenti e comportamenti del rampollo di famiglia. «Nel senso che Enzo Zappia è una persona tipo molto importante, in questo senso (..) ha la facoltà di mandarlo affanculo, cosa che non ho io. lo se lo mando affanculo mi prendo due schiaffi. E mi è andata bene, non so se mi spiego». Finito in carcere con l’inchiesta “Il Padrino” e condannato a 13 anni, adesso Zappia dovrà affrontare un altro procedimento. E sono guai per lui. Perché l’omicidio non va in prescrizione e la pena prevista dal codice è l’ergastolo.