VIDEO | Il procuratore di Catanzaro ha partecipato a un evento promosso dalla Fondazione Magna Grecia alla Camera dei deputati: «Ai tavoli con la Dea e l’Fbi l’Italia dava le carte ma poi non abbiamo investito nelle nuove tecnologie e siamo rimasti indietro, mentre Paesi come il Costa Rica hanno bucato i server dei narcotrafficanti» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Mentre la politica discute sull’utilità delle intercettazioni, le mafie pagano gli hacker e costruiscono nuovi sistemi di comunicazione sopra le nostre teste. Sistemi che noi non ascoltiamo, con i quali riescono a comunicare da una parte all’altra dell’oceano». Nicola Gratteri ha partecipato questa mattina a Roma, nella Sala stampa della Camera dei deputati, alla presentazione del I Rapporto sulle mafie nell’era digitale, promosso dalla Fondazione Magna Grecia presieduta da Nino Foti e a cura di Marcello Ravveduto, professore di Digital Public History dell’Università di Salerno.
«L’Italia non è riuscita a bucare nessuno di questi sistemi di comunicazione», ha detto il procuratore di Catanzaro. «Fino a sei o sette anni fa avevamo i migliori investigatori del mondo, non eravamo secondi a nessuno. Ai tavoli con la Dea e l’Fbi, l’Italia dava le carte. Ma i governi italiani non hanno investito nelle tecnologie, non hanno fatto ricerca, pensavano che non fosse importante. Il Costa Rica ha bucato il server dei narcotrafficanti, così come la Francia, l’Olanda e la Germania. L’Italia no. Dobbiamo coprire questo gap velocemente, bisogna finirla di arruolare nei servizi segreti solo marescialli, poliziotti e carabinieri. Dobbiamo assumere ingegneri informatici e hacker».
Perché le mafie sono cambiate, si sono adattate ai cambiamenti della società. Hanno imparato ad usare le nuove tecnologie e sono sbarcate sui social. Prima su Facebook, dove quello che postavano diventava spesso un boomerang che li portava direttamente in carcere, poi su YouTube, Twitter, Instagram e Tik Tok. Ed è proprio Tik Tok che ha cambiato completamente le carte in tavola, è qui che le mafie mettono in scena il loro reality show, ostentano la loro vita fatta di vestiti e gioielli costosi, macchine di lusso e potere. È qui che la Google Generation Criminale ha trasformato la mafia in un brand e i rampolli di mafia nei suoi influencer. «Questo rapporto svela anche degli aspetti che sono utili agli investigatori», ha detto Nino Foti. «Bisogna conoscere questi nuovi fenomeni per combattere la criminalità organizzata, saper come si muove nel digitale e come comunica oggi».
«Da sempre, per esistere, le mafie hanno bisogno di pubblicità», ha detto Nicola Gratteri. «Noi pensiamo che vogliano nascondersi, è esattamente il contrario. Come le famiglie di ‘ndrangheta che ristrutturano una chiesa e mettono una lapide col loro nome, come il figlioletto del capomafia che dona la banconota da duecento euro durante la processione. Sono tutte forme di esternazione del potere. Esiste ancora la mafia del potere militare, quella che chiede il pizzo, ma la mafia di cui ci dobbiamo preoccupare di più è quella che ci somiglia, quella che si siede a tavola con la classe dirigente, che beve champagne sul lungomare insieme alla borghesia. Oggi le nuove generazioni mafiose questo potere lo esternano sui social, è lì il modello vincente che serve ad assoldare gli stolti e i garzoni che vogliono diventare come loro».
È sui social che nasce la nuova narrazione delle mafie, quella che non ha più bisogno del cinema per essere raccontata e senza intermediari si infila nel flusso dei video di top model e celebrità che frequentano i loro stessi posti, ostentano i loro stessi lussi e indossano i loro stessi marchi. Tutto sfugge all’algoritmo perché il linguaggio che usano è il nostro. Ma tutto è chiaro per chi conosce il codice. E il codice è fatto di emoji, di hashtag virali e di musica trap.
«Le mafie nell’era digitale sono post-mafie», ha spiegato Marcello Ravveduto, che ha curato lo studio: «Hanno costruito una nuova estetica del potere fatta di lusso e soldi, perché chi ha i soldi detiene il potere e il loro racconto serve a dimostrare che comandano i territori virtuali come quelli reali. Di cosa è fatta questa narrazione? Di grandi quantità di denaro contante, di corse in moto e in macchine di lusso, di commemorazioni dei morti e degli affiliati in carcere, feste per la liberazione, minacce ai clan rivali, video di stese, t-shirt con le sigle dei clan, di tatuaggi che indicano appartenenza al clan, di armi e frasi contro i pentiti e il tradimento».
E, appunto, di emoji. «Le catene rappresentano il carcere o il legame indissolubile tra il marito carcerato e la moglie, la goccia di sangue è il patto di fratellanza o uno spargimento di sangue, la fiamma è una minaccia, la clessidra è l’avvertimento che qualcosa sta per succedere, un agguato o la liberazione dal carcere, il lucchetto rappresenta la promessa e il segreto da proteggere, il leone è il boss».
La criminalità organizzata italiana ha imparato tutto dai sudamericani, dai cartelli messicani del narcotraffico, che da sempre usano YouTube per sfidare lo Stato con la rappresentazione del loro potere militare fatto di sfilate di jeep e kalashnikov, con i video delle esecuzioni che a loro volta hanno ripreso da Isis e Al Qaeda, fatti di teste che cadono e corpi che bruciano.
«Le mafie italiane sono diverse perché i cartelli sudamericani hanno una strategia comunicativa unica, come se avessero un addetto alle pubbliche relazioni. In Italia i social vengono usati dai singoli», ha spiegato Antonio Nicaso, professore calabrese di importanti università americane e canadesi, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo. «Anche tra le diverse organizzazioni italiane ci sono differenze. La camorra ostenta da sempre di più, ma oggi stiamo vedendo anche alcuni rampolli di ‘ndrangheta che postano video su YouTube in cui si parla di lotta allo Stato e agli infami. Quello che è certo è che tutte le organizzazioni criminali oggi reclutano hacker. I social sono i pizzini del terzo millennio».