È finita poco dopo le 22.30 di ieri sera, la seconda udienza del processo “Gotha”. Una giornata lunghissima caratterizzata da un colpo a sorpresa che ha sparigliato le carte, quando sembrava che si andasse verso una direzione ben precisa, ossia la scelta del rito per ciascun imputato.

 

A prendere la parola, infatti, sono stati gli avvocati di Giorgio De Stefano, l’uomo ritenuto parte della cupola massonico mafiosa che governa Reggio Calabria e provincia. A giudizio della Dda, infatti, De Stefano sarebbe l’elemento di raccordo fra la componente invisibile della ‘ndrangheta e quella visibile, proprio in virtù di quei rapporti di parentela che lo legano ai De Stefano, figli di “don Paolino”. Una figura da sempre assai importante quella dell’avvocato, che ha catalizzato l’attenzione di numerosi collaboratori di giustizia che ne hanno fornito versioni anche contrastanti. 

 

Sta di fatto che ieri, Giorgio De Stefano (come anticipato da lacnews24.it) ha spontaneamente chiesto di essere interrogato dai giudici. Una mossa a sorpresa per un uomo che fino ad oggi aveva mantenuto il massimo riserbo. Chi ha potuto seguire l’interrogatorio, durato cinque ore, racconta di un confronto molto serrato ed interessante, in cui De Stefano ha provato a portare una sua tesi che spiegherebbe le ragioni per le quali egli non possa ritenersi intraneo alla cupola dei “mammasantissima” ricostruita dai pubblici ministeri della Dda di Reggio Calabria.

 

«Ho scoperto di essere stato intercettato sin dal 2007 – ha spiegato De Stefano – e voi dite che io sia la mente pensante della ‘ndrangheta. Bene, vi chiedo di contestarmi un fatto specifico. Ci sono stati diversi pentiti che hanno affermato come si dicesse di me alcune cose, ma non sono stati in grado di fornire una circostanza precisa». Per De Stefano, dunque, la convergenza dei collaboratori di giustizia sarebbe da spiegare con una strategia messa in atto e tesa ad accusarlo, sebbene la fonte da cui promanerebbero quelle accuse – il pentito Munaò – non gli abbia mai addebitato nulla. È per tale ragione che De Stefano ha invitato i magistrati ad acquisire i verbali del collaboratore di giustizia. L’avvocato ha voluto anche rimarcare come le parole del pentito Fiume, a suo avviso, siano cambiate radicalmente dal 2002 al 2012.

 

Insomma, una difesa a 360 gradi, quella di De Stefano che non si è sottratto ad alcuna domanda della pubblica accusa, considerato che egli ha dichiarato apertamente come, fino a ieri, non avesse potuto difendersi di fronte ad un giudice del processo, poiché da subito trasferito in località diverse da Reggio Calabria.  

 

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Sempre nella giornata di ieri, intanto, il giudice per l’udienza preliminare aveva rigettato tutte le eccezioni preliminari. Bocciata, quindi, anche quella presentata dai legali del giudice in pensione Giuseppe Tuccio, in cui si faceva riferimento alla incompetenza territoriale, atteso che Tuccio prestò servizio sia a Reggio Calabria che a Catanzaro. I pm della Dda, tuttavia, dissero a chiare lettere già sabato scorso che il periodo cui fa riferimento l’indagine è successivo alla presenza di Tuccio in Calabria e, dunque, Reggio resterebbe la sede naturale del processo. Una tesi accolta e condivisa dal gup.

 

Come già anticipato nel pomeriggio di ieri, infine, in 31 hanno optato per il rito abbreviato, sebbene le scelte debbano ancora essere formalizzate in via definitiva. Fra loro compare, al momento, anche l’ex sindaco di Villa San Giovanni, Antonio Messina, che ha chiesto di poter essere sentito dai giudici per fornire la sua versione dei fatti e respingere le accuse. Messina è apparso però un po' in difficoltà di fronte alle incalzanti domande dei pubblici ministeri. Per Paolo Romeo e Antonio Caridi, sebbene non vi sia stata ancora alcuna scelta definitiva, si prospetta la decisione di andare a processo con rito ordinario. Si prosegue già questa mattina, con la definizione delle singole posizioni.
 
 
Consolato Minniti