Lucido e circostanziato, risponde alle domande del pubblico ministero Chiara Bonfadini e attraverso il riconoscimento delle effigi fotografiche contenute negli album redatti dalla polizia giudiziaria consegna all’aula bunker di Lamezia Terme le sue memorie sui fatti criminali di cui è a conoscenza. Al maxiprocesso Imponimento continua l’esame del collaboratore di giustizia Francesco Michienzi, prima storica gola profonda del cartello ’ndranghetista degli Anello-Fruci, padrone dell’Angitolano, al confine tra le province di Vibo Valentia e Lamezia Terme.

Gli Anello-Fruci, capi e sodali

Riconosce sodali e capi. Riconosce Tommaso Anello, il fratello del superboss Rocco, che durante la detenzione del congiunto aveva la reggenza dell’omonimo clan. «Era lui a darmi gli ordini – dice Michienzi – soprattutto danneggiamenti ed estorsioni». Nelle sue spedizioni criminali, il collaboratore faceva quasi sempre coppia fissa con Santo Panzarella, ovvero il soldato del clan che intrecciò una relazione con la moglie dello stesso Rocco Anello, Angela Bartucca, e che per questo, il 10 luglio del 2002, all’età di 29 anni, fu fatto sparire col feroce metodo della lupara bianca.

Furti e intimidazioni

Michienzi racconta di furti, intimidazioni, azioni mirate a taglieggiare le aziende impegnate in opere pubbliche: dalle aziende locali, come la Restuccia Costruzioni, ai colossi, come la Asfalti Sintex. Tutti dovevano sottostare alle pretese del clan Anello. Dalle metanizzazioni ai cantieri sulla Salerno-Reggio Calabria: «Non c’era una regola nella spartizione delle estorsioni – spiega il pentito –. Quando consegnavamo i soldi, la quota maggiore andava sempre a Rocco, poi a Tommaso e il resto lo tenevamo noi come gruppo Fruci».

Sui monitor dell’aula bunker scorrono le altre foto segnaletiche, di imputati e non imputati. Riconosce quasi tutti, Michienzi, e tratteggiando il loro profilo rammenta fatti criminali: traffici di droga, racket, ma anche rapporti, non sempre d’intesa, con le altre cosche, in particolare con i clan di Lamezia Terme. Nel corso dell’udienza, l’ex picciotto spiega anche come un giornalista fosse nel mirino del clan.

Il giornalista nel mirino del clan

Si tratta di Antonio Sisca, corrispondente da Filadelfia di Gazzetta del Sud: «Un giorno – spiega il collaboratore – mi recai a casa di Rocco Anello, che leggendo un articolo di giornale di Antonio Sisca si arrabbiò molto. Questo giornalista, secondo Rocco, aveva sminuito la famiglia Anello e aveva descritto come boss della zona Claudio Fiumara. Fui io a fare telefonate minatorie a Sisca. Poi anche il figlio di Rocco si lamentò verso questo giornalista, che io so anche dove abita. Più volte peraltro andai a cercare la sua macchina, un Mercedes Classe C, che io dovevo bruciare. Ma non l’ho trovata. Mi hanno detto espressamente che lo dovevano sistemare perché è uno che parla assai, lo dissero in un bar di Filadelfia che era un punto di ritrovo loro».

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