Diventa sempre più forte quel filo rosso, prima estremamente sottile, che lega le vicende avvenute a Reggio Calabria negli anni fra il 1993 ed il 1994, con gli agguati ai carabinieri e l’uccisione dei militari Fava e Garofalo, e le stragi continentali che hanno segnato quegli anni con un comune denominatore chiamato “Falange armata”. Una sigla di rivendicazione che questa mattina è riecheggiata più volte nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Calabria, dove ci sono imputati Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano quali mandanti degli agguati ai militari dell’Arma. A deporre sul banco dei testimoni due dirigenti di primo piano del servizio centrale antiterrorismo. Poliziotti di spessore nazionale che hanno delineato con dovizia di particolari tutte quelle deleghe che la Dda di Reggio Calabria ha consegnato loro, quanto agli accertamenti proprio sul contesto nel quale la sigla “Falange armata” fu utilizzata e il collegamenti con quanto successo in Calabria.

Le tre rivendicazioni

Al dirigente Spina è toccato iniziare a deporre ricordando le varie rivendicazioni. In Calabria se ne contarono tre con diretto riferimento agli attentati ai carabinieri. La prima risale al 20 gennaio 1994, con una telefonata anonima arrivata alla stazione carabinieri di Scilla, nel corso della quale una voce maschile, con cadenza dialettale calabrese, disse: «Se continuate così ne uccideremo altri quattro – vedete che non stiamo scherzando». Chiaro il riferimento all’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, avvenuto solo pochi giorni prima, il 18 gennaio 1994. La seconda rivendicazione è del 1 febbraio 1994 ed è sempre una telefonata giunta alla stazione carabinieri “Rione Modena”, con cui una donna, con inflessione dialettale calabrese, disse: «Maledetti stiamo facendo una strage maledetti». Tale chiamata può ricondursi a quanto avvenuto lo stesso giorno, con il ferimento di due militari fra gli svincoli Arangea e San Gregorio, gli appuntati Musicò e Serra. La terza rivendicazione, invece, è quella che più rileva per i collegamenti con la matrice terroristica di questi fatti. Risale al 4 febbraio 1994 ed è una missiva che giunge alla stazione carabinieri di Polistena, con un documento a firma “Falange armata”, scritto con un normografo e con il seguente testo: «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccidi sull’autostrada, è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine».

 

La Falange Armata, la genesi

Ed è proprio sulla Falange Armata che si è soffermato molto Spina. Che cos’è la Falange Armata? «È un qualcosa di molto nebuloso», spiega il dirigente della polizia. «La parola falange si richiama all’antica Grecia, alle truppe macedoni. Più di recente in Spagna, nei primi del ‘900 si ebbe il falangismo, movimento che si rifaceva alla destra, ed accostato al fascismo».

L’omicidio e i collegamenti con ‘ndrangheta e servizi

È un episodio piuttosto noto quello che ha visto l’uccisione di Umberto Mormile, avvenuto l’11 aprile del 1990. Proprio nell’inchiesta “’Ndrangheta stragista”, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, assieme al pm Francesco Curcio della Dna, ha raccolto la testimonianza di un collaboratore di giustizia di primo livello, ossia Vittorio Foschini, appartenente al clan di Coco Trovano a Milano e, dunque, come lui precisa ai pubblici ministeri «referente dei De Stefano». La spiegazione dell’omicidio Mormile appare quasi elementare: «Venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia».

 

Parliamo quindi di ‘ndrangheta in piena regola. Papalia era detenuto per l’omicidio D’Agostino, il capobastone di Canolo che si diceva fosse vicino al magistrato Vittorio Occorsio, giudice che in tempi non sospetti – siamo negli anni ’70 – aveva pienamente compreso cosa si nascondesse dietro i rapporti fra ‘ndrangheta, servizi segreti, massoneria e la stagione dei sequestri di persona. Ma anche lui, come D’Agostino, fu trucidato. Foschini, sul delitto D’Agostino, non ha dubbi: «Appresi da Antonio Papalia che erano coinvolti anche i servizi segreti». Mormile, dunque, fu ucciso per il suo “no” a quella relazione compiacente a Papalia, uomo in contatto costante con i servizi segreti. Quegli stessi che diedero l’ok alla commissione del delitto e «si raccomandarono – racconta Foschini – di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stessi indicarono». Si tratta di Falange armata. Quella che, come racconta Spina, divenne da “Falange armata carceraria”, semplicemente “Falange armata”. Foschini aggiunge poi un particolare di non poco conto: «Fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica». Foschini non lo sa “de relato”, ma perché ne fu diretto testimone: «Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell’omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l’omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione», afferma Foschini.

L’escalation di comunicati

Tornando al processo, Spina passa in rassegna il numero di comunicati a firma “Falange armata” e si scopre così che si passa dai 28 del 1990, primo anno di attività, per giungere ai 308 del 1991, ai 189 del 1992, fino ai 437 del 1993, anno di punta di questa tipologia di comunicati. Poi, dopo il 1994 (291 comunicati) ci fu una continua flessione che arrivò sino al 2000, anno in cui scomparì definitivamente dalle tipologie di rivendicazioni. «Si tratta di fronti molteplici su cui intervennero tali comunicati – spiega Spina – e spesso avvenivano dopo che la stampa dava notizia dei delitti in questione. C’erano comunicati contro personale carcerario, forze dell’ordine, magistrati, ma anche giornalisti particolarmente intraprendenti, personalità politiche e alte cariche dello Stato come il presidente della Repubblica». Un’annotazione assume rilevanza: proprio nel periodo delle stragi continentali, il numero di rivendicazioni subisce un’impennata.

La Falange, Gladio e il Sismi

Questa commistione che abbiamo prima solo lambito, diventa più concreta nella deposizione del poliziotto, quando si sofferma sulla nota che l’allora ambasciatore Fulci, ex guida del Cesis, inviò all’allora capo della Polizia e comandante generale dell’Arma dei carabinieri. In questa nota riservatissima, Fulci disse a chiare lettere come, a suo avviso, sussistevano correlazioni fra appartenenti e/o appartenuti al Sismi, di cui fornì anche i nominativi, e la c. d. Falange armata, che a sua volta sarebbe in posizione di contiguità rispetto alla struttura paramilitare Gladio, la cui storia è ormai piuttosto nota. Secondo quella nota di Fulci, un ulteriore elemento di conferma sarebbe il fatto che il Sismi, in conformità ai compiti istituzionali, aveva motivo di contatti con l’ambiente carcerario, oggetto, questo, di particolare interesse per la “Falange armata”. Ecco allora che secondo la tesi di Fulci, personaggi di spicco di questa organizzazione sarebbero alcuni componenti di rilievo del vecchio Sismi.

Ma quali sono gli elementi che hanno convinto Fulci, con quella che poi, a più riprese, ha detto essere una sua valutazione personale? Uno in particolare: il fatto che le località di provenienza delle rivendicazioni da parte della “Falange armata” coincidevano con quelle dei centri Sismi. Da quella nota ne scaturì un’indagine che però poi fu archiviata dalla Procura della Repubblica di Roma.

I contatti telefonici

Tocca al primo dirigente della Polizia di Stato, Antonio Petrillo, poi, ricostruire almeno solo preliminarmente quelli che furono i contatti telefonici che emergono fra le persone condannate nel processo per le stragi, tenutosi a Firenze, ossia tutti i boss di primo piano di Cosa nostra come Riina, Provenzano, Graviano ed altri, con numeri di telefono fissi e cellulari, in Calabria. Innumerevoli contatti proprio in quel periodo incriminato, nel quale furono compiuti gli attentati. Contatti che sebbene la tecnologia dell’epoca non consentì di stabilire con la medesima precisione che potrebbe aversi oggi, portarono ad importanti acquisizioni investigative.

Una sigla creata in laboratorio

Quel filo rosso, prima sottile, inizia a delinearsi in tutta la sua forza. “Falange armata” non è semplicemente una sigla terroristica. Non in senso tradizionale. E la sua genesi – con l’omicidio Mormile – ne dà una connotazione fortemente calabrese. La ‘ndrangheta c’era dentro mani e piedi. E se è vero che la stessa sigla sarà poi usata per rivendicare le stragi continentali del 1993, come via Palestro, via dei Georgofili ed altri episodi, allora diventa più chiaro quel disegno unitario nel quale rientrarono anche gli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo, nonché gli ulteriori agguati che ferirono esponenti dell’Arma. Basti pensare che Fulci, nella sua nota, inviata ai vertici delle forze dell’ordine, disse che «potrebbe essere presa in considerazione la tesi che la sigla in questione (Falange armata, ndr) copra una struttura appositamente creata in laboratorio, con specifici intenti di inserimento e di manovra in ambienti di pubblico interesse». Fulci è netto: «Solo apparentemente l’attività intimidatoria, peraltro mai concretizzata, verrebbe svolta indiscriminatamente verso una molteplicità di obiettivi, in realtà una buona parte di essi costituirebbe soltanto un pretesto per inviare precisi messaggi a ben determinati settori». Schegge impazzite dello Stato (come disse l’ex presidente della commissione stragi Gualtieri) che si mettevano insieme ad esponenti della criminalità organizzata. Tutti nello stesso laboratorio, tutti per destabilizzare un Paese intero e prenderne il controllo. In modo più o meno diretto.

Consolato Minniti