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L’assassino tornò sul luogo delitto, prima che il cadavere carbonizzato di Nicola Colloca fosse scoperto, per completare la messinscena. Una relazione del Ris dei carabinieri, depositata il 3 marzo 2016, pone – per i pm di Vibo Valentia ed i militari dell’Arma che hanno condotto le indagini – un altro punto fermo sul giallo della morte dell’infermiere di 49 anni, avvenuta tra le 18.39 del 24 settembre 2010 e le 4 del mattino successivo, in località Gutumara, a Pizzo.
Sono otto gli indagati
Secondo la ricostruzione operata dagli inquirenti, che hanno chiuso le indagini a carico di otto persone - la moglie e il figlio della vittima e ulteriori sei indagati tra presunti concorrenti o fiancheggiatori - l’infermiere sarebbe stato tramortito con un colpo alla testa, trasportato nella pinetina al confine tra i comuni di Pizzo e Maierato e qui arso quand’era ancora vivo. I presunti esecutori materiali dell’omicidio avrebbero quindi tentato di mascherare il misfatto come suicidio, sia nelle fasi esecutive, sia nel corso degli interrogatori.
Semicarbonizzato sugli aghi di pino
Il ritorno sulla scena del crimine, prima che l’auto con all’interno il corpo ormai irriconoscibile di Colloca fosse scoperto, si ricava – secondo i carabinieri – dalle modalità di rinvenimento del tesserino professionale della vittima, all’interno dell’auto ormai ridotta ad una carcassa di lamiere. Il badge – rilevano gli esperti del Ris – si presentava carbonizzato solo in parte e, in particolare, si trovava adagiato sopra un velo di aghi di pino.
Il Ris – nella sua relazione tecnica – spiega come, al momento in cui veniva scoperta la scena del crimine (la sera del 26 settembre 2010), sia l’auto che i resti carbonizzati della vittima risultavano «rivestiti da aghi di pino che, successivamente allo spegnimento delle fiamme dell’incendio, sono caduti dall’albero la cui chioma sovrastava l’auto». E ancora: «L’ingresso degli aghi di pino, reso possibile anche dall’assenza di tutti i vetri dell’auto, ormai distrutti, ha determinato di fatto un “punto zero”, successivamente al quale ogni oggetto che si trova dentro l’auto ma sopra gli aghi di pino deve essere entrato nell’abitacolo in un arco successivo allo spegnimento dell’incendio e alla caduta degli aghi».
Il badge in auto dopo lo spegnimento?
I carabinieri del Ris, pertanto, hanno proceduto ad analizzare il tesserino rinvenuto e a compararlo con tesserini in dotazione al personale Asp del tutto simili a quello della vittima, producendo una serie di esperimenti diretti a comprendere se fosse stato possibile che il badge potesse restare solo in parte carbonizzato all’interno di un abitacolo nel quale si sarebbe raggiunta una temperatura fino a 600 gradi. Dagli esami – così hanno concluso gli inquirenti – è emerso che il tesserino di Nicola Colloca sarebbe stato prima parzialmente bruciato esponendolo ad una fonte di fuoco, come un accendino, e poi lasciato all’interno dell’automobile ad incendio ormai spento, sopra gli aghi di pino integri. Non ci sarebbe spiegazione alternativa.
La lesione al cranio e il presunto movente
Le indagini, ormai chiuse, avevano registrato una svolta con la perizia medico legale del professor Giovanni Arcudi, sul cadavere riesumato l’1 marzo del 2014. Una prima perizia medico-legale, eseguita nell’immediatezza del ritrovamento dei resti carbonizzati, aveva invece accreditato la tesi del suicidio. La perizia Arcudi aveva rilevato sul cranio della vittima una lesione compatibile con l’azione violenta inferta attraverso un corpo contundente. Le investigazioni coordinate a suo tempo dal pm Michele Sirgiovanni (adesso in servizio a Prato) e condotte dai carabinieri, anche attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali, hanno individuato il movente negli attriti tra la vittima e gli indagati per motivi di carattere economico e familiare.
La richiesta d’arresto respinta
La Procura di Vibo Valentia aveva chiesto anche l’emissione di provvedimenti custodia in carcere per sei degli otto indagati. Le misure sono state respinte dal gip Lorenzo Barracco, il quale ha riconosciuto insussistenti i pericoli di fuga e di inquinamento probatorio addotti della pubblica accusa. Pur lamentando l’assenza di ricostruzione efficace tale da individuare il ruolo dei singoli indagati nell’esecuzione del delitto, lo stesso giudice ha però riconosciuto la presenza di profili indiziari solidi non solo per stabilire che si è trattato di omicidio ma anche per ritenere suffragati i sospetti attorno agli indagati, dei quali vengono evidenziati in particolare le contraddizioni e gli atteggiamenti, volti, sostiene il gip, a depistare le indagini.
L’indagine per rivelazione di segreti e diffamazione
Le accuse sono sempre state contestate dalla principale indagata, Caterina Gentile, moglie di Colloca, che ha in particolare denunciato l’ex suocero, Antonio Colloca, che si trova indagato, assieme alla figlia Francesca, per rivelazione di segreti d’ufficio e diffamazione. Presunte ipotesi di reato alla quale – secondo la stessa Gentile – avrebbero concorso pubblici ufficiali, organi di stampa e giornalisti. La Procura di Vibo, a seguito degli esposti di Caterina Gentile, aveva chiesto l’archiviazione delle accuse. Il gip Gabriella Lupoli, invece, accogliendo l’opposizione formulata dall’avvocato Pietro Chiappalone nell’interesse della sua assistita, ha ordinato la prosecuzione delle indagini. La donna, anche relativamente alla posizione del figlio, con una lettera inviata al Quotidiano del Sud, aveva ancora una volta contestato ogni collegamento al delitto.
Pietro Comito e Manuela Serra