In manette anche il figlio illegittimo dello storico boss di Reggio, don Paolino De Stefano, e compagno della showgirl Silvia Provvedi. Riconosciuto in tarda età dai fratelli quando loro sono stati travolti da processi e condanne ha dovuto sostenere il peso dell'eredità criminale a cui ha sempre ambito. Ed ora è stato beccato
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Viveva da re del jet set e dei salotti milanesi. Si era fatto fama di imprenditore, assai facoltoso e amante della bella vita, con tanto di amorazzi con dive e starlette. L’ultima, Silvia Provvedi, ex di Fabrizio Corona e fra le concorrenti del Grande fratello vip, parlava di lui chiamandolo “Malefix” per proteggerne l’identità. Ma Giorgino De Stefano è sempre rimasto un arcoto, anzi uno degli attuali vertici operativi della famiglia De Stefano. E come tale questa mattina è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria e dello Sco su richiesta della procura antimafia di Reggio Calabria e per ordine del gip.
Per i magistrati, complici arresti e processi che hanno travolto vertici strategici e operativi del clan, anche su di lui è ricaduta la responsabilità di mantenere e alimentare il potere e il prestigio della famiglia, che su Archi ha sempre fondato il proprio regno, i cui confini almeno dagli anni Settanta si estendono ben oltre non solo il quartiere della periferia nord di Reggio, ma la città, la regione, persino l’Italia.
Da latriceddu a imprenditore
Un’eredità pesante a cui il figlio illegittimo di don Paolino De Stefano - che i fratelli Carmine, Peppe e Dimitri hanno riconosciuto in tarda età, permettendogli di prendere il cognome del padre – ha sempre ambito. E a riceverla è stato addestrato, fin da quando è stato allontanato dalle compagnie che davano troppo nell’occhio e da Reggio Calabria, dove il suo nome aveva finito per farsi notare. Anche da don Peppe Pelle. «U latriceddu» lo aveva definito in una conversazione intercettata oltre dieci anni fa, con cui si dimostrava assai al corrente di assetti e umori della famiglia di Archi. Aristocrazia di ‘ndrangheta e suoi pari.
Il feudo storico dei De Stefano
Ma già all’epoca, Giorgetto o Giorgino era stato spedito a Milano a farsi le ossa. Una seconda casa per i De Stefano, che lì hanno messo radici fin dagli anni Settanta, con il re della Comasina, Franco Coco Trovato a vigilare sugli interessi e Paolo Martino, cugino prediletto di don Paolino, a curarli da vicino. E dove negli anni 80 e 90, Peppe De Stefano si faceva vedere spesso, accolto come un fratello da Antonio Papalia – raccontano i pentiti – che era capo del Consorzio, una sorta di coordinamento di tutte le mafie, e della Lombardia.
«Il capo aveva un girocollo, che era di Mico Papalia- ha spiegato di recente in aula il collaboratore Nino Fiume. Una volta lo ha lasciato anche a Peppe De Stefano». Un segno di rispetto e di rango. E magari di comuni affari, se è vero – come sostiene il pentito Roberto Moio – che proprio ai Papalia i De Stefano per decenni hanno fatto arrivare danari su danari, serviti anche per il cemento di Milano 2.
La Milano da bere dell’erede di don Paolino
È questo il terreno che Giorgino De Stefano è stato mandato ad arare. Lì si è costruito una nuova identità, ha iniziato a frequentare – e secondo alcuni, ad acquistare e controllare – i locali di lusso, a frequentare divi, starlette. Si è vestito di un’altra vita, mentre sviluppava affari e imprese «a Milano e all’estero». Magari in Spagna, dove intercettato racconta di essersi trasferito dopo l’arresto del fratellastro Dimitri per paura di essere il prossimo sulla lista. Un fronte su cui le indagini sono tuttora in corso. E potenzialmente ad ampio raggio se è vero che i business che De Stefano aveva per le mani erano così tanti da aver chiamato in aiuto per gestirli anche Antonino Randisi – un Molinetti in tutto e per tutto – senza poter rinunciare a voler reclutare ancora reggini di fiducia «perché su c’è tanto da fare e io uno sono».
Una vita sottotraccia
Dopo gli anni di gioventù, passati a fare di tutto pur di non farsi notare, aveva anche sviluppato un altro modus di operare. Allergico ai social, profilo blindatissimo su instagram, quando la casa madre chiamava e lui doveva tornare a Reggio, si era abituato ad adottare tutta una serie di precauzioni. «Per scendere in modo che non lo sanno – raccontava intercettato - bisogna fare ogni volta un manicomio... dobbiamo arrivare a Roma o a Napoli... lasci i telefoni... prendi la macchina...(...) Perché con me non è che sono... stanno cercando in tutti i modi di…». Non arriva a pronunciare la parola arresto, il suo interlocutore lo precede. Giorgino sa che è nel mirino. Ma ai doveri di famiglia non può sottrarsi, né a quell’eredità a cui ha sempre ambito.
Il peso del casato
E quando i contrasti con Gino Molinetti, storico capo di uno dei gruppi di fuoco durante la guerra e da sempre “testa calda”, hanno superato il livello di guardia, è toccato a lui andare a parlare con il fratello Alfonso. «Uomo di pensiero» contrariamente al fratello da sempre stato «uomo d’azione», dopo una condanna all’ergastolo in semilibertà a Giugliano dove era impiegato come cuoco alla Caritas, è Alfonso a ricevere Giorgino. E in virtù del casato a cui appartiene per sangue e convinzione, con lui il figlio di don Paolino si può rapportare più che da pari. Lo può invitare a far ragionare il fratello, perché «c’è tanto da fare, è inutile litigare» ma può anche lasciare intendere che altre “mancanze” non saranno ulteriormente tollerate e se non si dovesse trovare una soluzione, ci sono sempre altri mezzi – non di certo pacifici – per superarle.
Un secolo di storia criminale
Discussioni che si ripetono uguali a se stesse dai primi decenni del secolo scorso, quando il padre dell’avvocato Giorgio De Stefano, attualmente in carcere dopo una condanna a 20 anni come esponente di vertice della direzione strategica della ‘ndrangheta, nel 1930 veniva condannato per un omicidio di quella che all’epoca si chiamava “Maffia”. E Giorgino è – al momento – l’ultimo protagonista noto di un “romanzo criminale” che suo fratello maggiore Carmine descriveva intercettato nell’ambito dell’Operazione Olimpia, negli anni Novanta.
Corsi e ricorsi di ‘ndrangheta
«Sono 9 anni che è morto mio padre. E si sono fatti la guerra. Siamo usciti dalla guerra. E come siamo usciti? Pari e pace siamo usciti – disquisiva Carmine, a colloquio insieme al fratello Giuseppe con il boss Nirta - Ora abbiamo la legge, altri cinque o sei anni di legge. Finisce la legge e cominciamo un'altra volta. Questa è la vita. Che vi pare che è?... Mio padre che ha fatto? Nel 74 la prima guerra, poi fino al 77. Nel 77 un'altra guerra fino all'80. All'80 la legge. Fino all'85. Poi nell'85 lo hanno ammazzato e abbiamo cominciato noi... Mio padre che vita ha fatto? Guerra, latitanza e galera... quando è morto mio zio Gianni c'era tutta la Calabria...quando è morto mio zio Giorgio c'era tutta la Calabria... quando è morto mio padre non c'era nessuno». Perché la guerra era di fatto già iniziata. E sempre un conflitto ha imposto che Giorgino abbandonasse il basso profilo che aveva mantenuto fino ad allora. Ha dovuto far mostrare e far valere il suo peso criminale. E il capitolo di cui è protagonista si chiude con l’ingresso in carcere insieme al fratello Carmine e allo zio Orazio.