«Indossate la mascherina, vi prego, fatelo per voi e per i vostri cari, il Covid non è uno scherzo e nemmeno una banale influenza. E l'età non c'entra niente, può ammalarsi chiunque». È questo il messaggio che vuole lanciare Massimo, 46enne di Santa Maria del Cedro, sopravvissuto a una gravissima forma del virus, che l'ha tenuto attaccato al respiratore per settimane. Contrariamente, i suoi genitori non ce l'hanno fatta. Sono morti entrambi dopo essere stati contagiati, prima di lui, a distanza di pochi giorni uno dall'altra. Così, dopo mesi passati a riflettere, oggi Massimo vuole rendere pubblico il suo dramma per dire a tutti di prestare maggiore attenzione, di rispettare regole e distanze, perché di Covid si muore, eccome.

Le origini del dramma

Massimo gestisce un piccolo esercizio commerciale ed è una persona molto riservata, ma ha deciso di tirare fuori tutto il dolore che ha dentro con l'intento di evitare il suo dolore a qualcun altro. Ha deciso di scrivere una lettera, che ha inviato alla nostra redazione, e raccontare come e perché il contagio si sia trasformato in una tragedia. Lo fa partendo dal principio. «Dolori muscolari, febbre sono i primi sintomi che avverto - scrive Massimo, che si è ammalato lo scorso autunno -. Mi isolo subito dal resto della famiglia in attesa di fare un tampone che confermerà la mia positività. Nei giorni seguenti si aggiungono perdita del gusto, stanchezza, forte tosse, ma continuo a curarmi da casa come da protocollo Covid 19». Quindici giorni più tardi, però, la situazione degenera: «I livelli di saturazione scendono, c’è bisogno di ossigeno sempre di più, sto sempre peggio, faccio intervenire il 118 per ben tre volte, le prime due i sanitari mi convincono a stare a casa, secondo loro da lì a poco sarei guarito». Ma non è andata esattamente così: «La terza volta mi hanno trasportato d’urgenza all’ospedale Annunziata di Cosenza in codice rosso». Ma quel giorno non è l'unico dramma con cui Massimo deve fare i conti. Il suo papà, anche lui positivo al Covid, muore. È il 27 novembre.

Sofferenza devastante

Massimo è stordito, è confuso. Pensa a se stesso e anche al suo papà che non c'è più. E intanto prega anche per sua madre e suo fratello, anche loro ricoverati. Ma in quelle stanze c'è poco tempo per rendersi conto di quello che sta accadendo. Dopo dolorosissimi esami a cui il 46enne viene sottoposto, i sanitari gli applicano la Cpap, un ventilatore a flusso d'aria continuo a pressione positiva costante. Ma nemmeno quello basta. «Dopo un paio di giorni - dice Massimo - i medici mi spostano in Terapia Intensiva e durante il tragitto un dottore mi prepara al peggio, mi dice che non è un bel posto». Poi il medico aggiunge: «Tu cerca di uscirne vivo». Arrivati nella stanza, i sanitari lo spogliano lasciandolo nudo. «In caso si ritenesse necessario intubarti, non possiamo perdere tempo a toglierti i vestiti». Così gli dicono.

Nei meandri della disperazione

«Quando ti mettono il casco - dice ancora Massimo - ti sembra soffocare, poi ti abitui ai ritmi della macchina ma è comunque fastidioso». In quei giorni lo alimentano con gli omogeneizzati attraverso un piccolo oblò apribile del casco, ma lo scenario che ha di fronte non lo aiuta a rimettersi in piedi. «Ci sono tre persone, due sono intubate, l’altra ha il casco e la sera scambia due parole con il medico, ma la mattina seguente non è più cosciente. La situazione precipita velocemente». E precipitano anche le condizioni di sua madre, che se ne va la mattina del 12 dicembre. Massimo è solo, chiuso nel suo dolore, impaurito, spaventato. Il mondo gli crolla addosso. Così come era stato per suo padre, anche a sua madre non potrà dare l'ultimo addio.

La luce in fondo al tunnel

Ma Massimo è forte, è una roccia, e nonostante tutto trova la forza di continuare a lottare. Le sua condizioni migliorano gradualmente e i medici gli tolgono il casco, ma il calvario, che continua in Terapia Sub-Intensiva, è tutt'altro che finito. Per giorni gli viene somministrato ossigeno ad alti flussi, rimane attaccato alle flebo ed è collegato a un apparecchio che monitora costantemente le sue funzioni vitali. Massimo non può muoversi. Viene poi trasferito in geriatria, dove c'è l'unico posto letto ancora disponibile. Da lì Massimo chiede continuamente informazioni sui suoi ex compagni di stanza e molti, purtroppo, non ce l'hanno fatta. Per Massimo però c'è una piccola, magra consolazione: finalmente può indossare un pigiama e imparare di nuovo a camminare. Verrà successivamente trasferito al campo medico militare dove riceverà le ultime cure prima di essere rimandato a casa.  Dopo qualche giorno un nuovo tampone, l'ennesimo, mette fine allo strazio, Massimo è finalmente negativo al Covid. Manca davvero poco, subito dopo aver vinto la "dipendenza" da ossigeno, può finalmente tornare a casa. Sono passati 18 giorni.

Il ritorno a casa

Una volta tornato nella sua abitazione a Santa Maria del Cedro, Massimo deve fare i conti con gli strascichi della malattia, affanno, mancanza di forze, difese immunitarie basse, ricordi che fanno male. «Ti tocca stare altri giorni a riposo ma almeno sei con la tua famiglia - e con il fratello che fortunatamente ce l'ha fatta-, felice di essere tornato vivo, anche se il pensiero è rivolto a chi ancora è li a combattere, a chi non c’è l’ha fatta». Poi conclude: «Un pensiero e ringraziamento va ai medici, infermieri e che dal primo all’ultimo giorno si sono presi cura di me senza sosta come hanno fatto con altri e continuano a fare, senza di loro non c’è l’avrei fatta. Ho voluto rendere pubblica la mia esperienza soprattutto perché arrivi a chi non crede al virus, non è una semplice influenza, se hai la fortuna di uscirne vivo lascia segni sia di salute e sia psicologico».