Lo chiamavano “pelli” o “sego”, nomi tecnici che utilizza chi commercia in questo specifico settore. In realtà, però, si trattava di denaro. Usavano questo linguaggio criptico, secondo gli investigatori, gli indagati dell’inchiesta “Vello d’oro”, portata a termine questa mattina dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze, coordinata da un magistrato reggino “doc” come Giuseppe Creazzo.

Il meccanismo associativo

Per gli inquirenti, dunque, a gestire questi affari illeciti vi era Antonio Scimone, noto imprenditore originario della Locride, ma molto attivo anche a Reggio Calabria e in altre regioni italiane. Ora, come già noto, gli indagati avrebbero messo in piedi un’organizzazione dedita alla commissione di una serie di reati, fra cui riciclaggio, usura, abusiva attività di credito, autoriciclaggio, intestazione fittizia di beni, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, nonché innumerevoli violazioni in materia tributaria. Antonio Scimone, assieme al suo sodale Giuseppe Nirta, «dopo essersi approvvigionato di cospicue somme di denaro contante – scrivono gli investigatori – le ha consegnate a Cosma Damiano Stellitano, il quale, a sua volta, le ha ripartire e consegnate ad alcuni imprenditori toscani operanti nel settore della concia delle pelli. Tali imprenditori, in ultimo, hanno restituito le somme di denaro ottenute, mediante il reinserimento di tali capitali nel tessuto commerciale legale ed, in particolare, saldando fatture per operazioni inesistenti emesse dalla Unipel srl di Giuseppe Nirta, la quale, a sua volta, ha acquistato (sempre cartolarmente) la merce venduta ai conciari, dalla Marapel Srl (altra società gestita di fatto dal sodalizio)».

Nessuna attività collegata

Così se i linguaggi criptici riguardavano termini come “pelli” e “sego”, in realtà fra le molteplici attività di Scimone, gli investigatori non hanno annoverato quella di commercio di pelli e/o affini. «Nel corso delle indagini non è stata mai registrata alcuna conversazione riguardante la commercializzazione, produzione o qualsiasi altra attività inerente a pellame o similari, essendo stato rilevato, inoltre, che nella galassia delle società allo stesso riferibili non vi fosse alcuna società – fatta eccezione per la Marapel srl – orientata a quelle ben determinate attività. Analogamente Stellitano non ha fatto mai riferimento ad alcun tipo di contratto in essere relativo alla fornitura di pellame da parte di Scimone».

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Il nodo dell’Iva

Come documentato dalle forze di polizia, nei documenti fittizi predisposti, le somme di denaro che gli imprenditori conciari hanno restituito, sono da ricercare negli importi indicati nelle fatture, comprensive di Iva. Ed è proprio lì che si annida la quota chiave. Parte della somma da restituire, riferibile all’interesse, sta in una quota dell’imposta sul valore aggiunto che le aziende di Scimone, dopo aver incassato, non provvedevano a liquidare allo Stato. «Tali somme – scrivono gli investigatori – contribuendo concretamente ad accrescere il patrimonio finanziario personale degli indagati, sono da considerarsi un vantaggio personale che è addirittura di natura usuraria».

Come avvenivano gli illeciti

È stato appurato come la Marapel srl, sia per le annualità 2014 che 2015, fosse deputata unicamente «ad emettere fatture false nei confronti della Unipel srl che, a sua volta, ne emetteva altre, sempre fittiziamente, nei confronti delle società conciarie che dovevano restituire le somme di denaro ottenute dal sodalizio di origine calabrese. La Unipel srl provvedeva alla riscossione delle fatture emesse nei confronti delle società conciarie, comprensive di Iva che, a fine esercizio, avrebbe quasi completamente pareggiato con l’imposta sul valore aggiunto accreditata dalle fatture ricevute dalla Marapel srl». E dall’esame delle informazioni estrapolate dagli investigatori è emerso che la Marapel «non ha mai ottemperato alla presentazione di alcuna dichiarazione ai fini Iva e, di conseguenza, al pagamento delle rispettive imposte». E il socio unico e amministratore dell’azienda, Francesco Saverio Marando, denunciò lo smarrimento dei documenti contabili della società.

Gli obiettivi degli imprenditori

A giudizio degli inquirenti, dunque, gli imprenditori conciari si sono avvalsi delle fatture per operazioni inesistenti emesse dalla Unipel srl per: ottenere denaro contante (da destinare, con ogni probabilità ai “fuori busta” ai dipendenti); abbattere gli utili delle aziende e, dunque, pagare minori imposte sul reddito delle persone giuridiche; vedersi accreditate indebitamente somme pagate alla Unipel srl, in parte anche a titolo d’Iva.

Il calcolo a titolo d’esempio

Senza scendere in dettagli troppo tecnici, dagli accertamenti è venuto fuori come gli indagati «hanno beneficiato di una somma (a titolo d’interesse) corrispondente al 9,5% circa dell’importo erogato». Ma facciamo un esempio pratico per rendere meglio l’idea, come riportato dagli investigatori.

Qualora la restituzione della prestazione (ancora da erogare) ammonti a 12.200 euro (cifra indicata come importo complessivo anche nel documento fiscale predisposto) Scimone, al fine della quantificazione della somma da erogare, procede: allo scorporo dell’Iva (12.200/1,22= 10.000); ad applicare il tasso d’interesse pari al 9,5% all’imponibile (10.000), ottenendo 950; a decurtare, dall’importo complessivo della fattura (e dunque incassato nel conto Unipel), l’importo ottenuto dai precedenti calcoli (12200-950) per giungere all’individuazione della somma di denaro da erogare (in questo caso 11.250). In questo caso, dunque, Scimone e Nirta restituiscono anche una parte delle somme ottenuto a titolo d’imposta sul valore aggiunto. «Quest’ultima: per i conciari, che l’hanno pagata, va a costituire un credito, sebbene non esigibile contestualmente, nei confronti dell’Erario e non un costo da sostenere personalmente; per le imprese di Scimone, non avendo mai provveduto a versarla nelle casse dello Stato ed avendone restituita solo in parte in contanti, costituisce, nella differenza ricavata, il vantaggio economico personale».

Consolato Minniti