«Avevo solo una febbriciattola, ma nessun fastidio. Appena ho appreso che al convegno c’era stata una persona positiva al coronavirus, non ho perso tempo e sono corso in ospedale. Non stavo male ed oggi sto guarendo senza farmaci, ma non potevo correre il rischio di diventare “untore” di decine di persone. Era una questione di responsabilità».

La voce è ferma e decisa, anche se, dall’altra parte del telefono, l’emozione viene spesso ingannata da una risata dal sapore amaro. Sì, perché Giuseppe Zimbalatti, 59 anni fra un paio di giorni, sta conoscendo sulla sua pelle cosa significhi ammalarsi di coronavirus. È lui la persona che abbiamo imparato a conoscere come “il professore di Agraria”, risultato positivo al test del Covid-19; è lui l’obiettivo di un incomprensibile quanto miserabile sciacallaggio su social e app di messaggistica, dove sono state diffuse generalità e foto in spregio a qualsiasi tutela della privacy.

Il racconto di Giuseppe Zimbalatti

Oggi, a distanza di qualche giorno dalle sue dimissioni dal Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria, il Direttore di Dipartimento della facoltà di Agraria della “Mediterranea” decide di parlare per la prima volta ed in esclusiva ai nostri microfoni per raccontare umori e sensazioni di una storia che gli ha stravolto la vita.

«Non ho nulla da nascondere. Ho fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi persona responsabile», ripete come un mantra. Non ama sentirsi protagonista, Giuseppe Zimbalatti. E non è un modo di dire. Lo racconta la sua esistenza vissuta in maniera semplice e discreta, fra un lavoro che diventa missione ed una famiglia che ama profondamente. Senza neppure accorgersene, chiama «figli» anche i suoi studenti, quelli che mai lo hanno abbandonato nei momenti di maggiore difficoltà. E che lui sente suoi, perché se ne prende cura un po’ come un padre.

 

Professore, a che punto è la sua battaglia con il coronavirus?

«Dobbiamo attendere qualche altro giorno. Devo rimanere in quarantena ancora un po’, mi faranno altri tamponi e, se tutto va bene, poi sarò guarito e potrò tornare operativo. Mi hanno dimesso sabato, dopo tre giorni di ricovero. Ora spero in un lieto fine».

 

Ricostruiamo gli ultimi venti giorni. Ha appurato come abbia contratto il virus?

«Guardi, le racconto esattamente l’evolversi dei fatti. Fra il 17 ed il 18 febbraio ho organizzato un convegno al quale hanno partecipato esperti di settore provenienti da tutta Italia. All’epoca qui da noi non vi era alcuna limitazione. Si parlava di coronavirus, certo, ma senza alcun allarme. Ed infatti è filato tutto liscio.

Il 19 ed il 20 febbraio, a Udine, vi è stato un altro convegno a cui hanno partecipato dei docenti di Agraria, esperti in costruzioni rurali. A distanza di quasi 14 giorni da quell’appuntamento, abbiamo appreso che c’erano delle persone che avevano contratto il virus. Tuttavia, io a Udine non ci sono mai andato fisicamente, né ci è andato l’altro collega del mio Dipartimento, che è poi risultato positivo e che è stato ricoverato a Catania. Le dirò di più: abbiamo saputo solo incidentalmente che, con tutta probabilità – perché io la prova provata non l’ho mai avuta, in quanto nessuno si è premurato di chiamarmi per comunicarmelo – al convegno a Reggio c’era un partecipante poi risultato positivo. Sinceramente, chi ci abbia infettato non lo sappiamo. Rimangono solo questi contatti sospetti. Non escludo che vi sia stata un’azione “combinata” fra i convegni di Reggio e Udine. Mentre a Catania sono riusciti a risalire al contagio originario, partito dai lavori in Friuli Venezia Giulia».

 

Cosa è successo quando ha appreso della positività al Covid-19 del suo collega?

«Io l’ho scoperto grazie al lavoro straordinario del nostro servizio di prevenzione dell’Asp di Reggio Calabria. Sono di un’efficienza ed una bravura eccezionale. Mi hanno subito messo sul “chi vive”, contattandomi e informandomi di quanto stava avvenendo. Ho fornito immediatamente le mie generalità, ho narrato la situazione che vivevo ed ho allertato tutti i membri del dipartimento, al fine di capire chi avesse avuto contatti con lui».

 

È in quel momento che è scattata la molla che le ha fatto pensare di poter aver contratto il virus?

«Esatto. Appena appreso di questo quadro generale, la mia mente ha collegato tutto. Da qualche giorno avevo una febbriciattola che, la sera, saliva a 37.5-37.7. Ho associato tutto ed ho pensato che ogni giorno incontro tanta gente. È vero: non bacio né abbraccio nessuno, ma vedo sia studenti che docenti. Allora sono salito immediatamente in auto e mi sono recato alla tenda del triage. Non ci ho pensato neppure un momento. Mi sono detto: “Giuseppe, non puoi rischiare di essere veicolo di contagio”. Ho parcheggiato l’auto alla meno peggio e da lì è iniziato il mio percorso».

 

Cosa è accaduto una volta varcata la soglia della tenda?

«Hanno proceduto ad una anamnesi immediata. Mi hanno condotto in un ambiente chiuso ed isolato. Da lì è venuto ad accogliermi un medico del reparto di Malattie infettive e mi ha messo in isolamento all’interno di una stanza chiusa, dove sono stati effettuati i tamponi. Mi hanno comunicato l’esito ancora incerto del primo test. Poi sono arrivate due donne che non ho potuto identificare perché completamente protette da maschere e guanti. Lì ho iniziato a capire che c’era qualcosa che non filava. Una gestazione troppo lunga. Ed infatti abbiamo avuto la conferma della positività. Posso dirle una cosa che mi sta molto a cuore?».

 

Certo. Prego.

«Lo dico con il sorriso sulle labbra, mi creda: qualcuno ha scritto e detto che bisogna essere docenti universitari per essere trattati bene. Ma quando mai! Io non ho parole per ringraziare il personale del Gom e posso testimoniare che tutti, lì, sono trattati allo stesso modo. All’interno del reparto di Malattie infettive, ma anche di Microbiologia, ho riscontrato una serietà straordinaria e sono contento per come funzionino. Certo, poi se domani ci sarà un’ondata di 500 contagiati, forse le strutture del Nord possono essere superiori per attrezzature e possibilità, ma mi preme dirle che sono stati bravissimi qui a Reggio».

 

Cosa ha provato quando le hanno comunicato di essere positivo ad un virus di cui ancora, obiettivamente, si sa ben poco?

«Un po’ me l’aspettavo, quando ho visto quella procedura così lunga. Poi sono stato contattato dall’Asp e lì è diventato tutto più chiaro. Con grande garbo ed efficienza mi hanno chiesto quali fossero stati i miei contatti. Hanno svolto un’azione di sensibilizzazione nei confronti di decine e decine di persone. Mia moglie forniva altri nomi, così come coloro che, a loro volta, venivano convocati ne davano degli altri. Li ho fatti lavorare giorno e notte».

 

Quanta amarezza le ha provocato sapere di questa “caccia all’untore”?

«È stata una situazione molto curiosa e sono state dette cose ridicole. Tanti mi hanno sollecitato ad avviare azioni a mia tutela. Ma sa che le dico? Questa esperienza, fra le altre cose, mi ha confermato che ci sono valori molto più importanti. Qui al Sud, ed a Reggio Calabria in particolare, abbiamo già i nostri problemi e non mi va certo di fare un’ulteriore opera di demonizzazione della nostra mentalità che, però, in questo caso non mi è piaciuta».

 

Cosa le lascia questa esperienza?

«Ecco, questa è una bella domanda. Mi lascia la grande solidarietà degli amici e delle persone che mi sono state vicino. Al di là delle stupidaggini che si dicono sui social, ho riscontrato enorme solidarietà. Per un verso sono mortificato, ma non per me. Io lavoro con i giovani e le direttrici su cui baso la mia attività sono due: lotta all’omertà e alla rassegnazione. Ed è questo il messaggio di vita. Tuttavia, ho sentito da più parti: “ma perché non hai pensato di curarti tu e basta? Tu stavi bene, perché sei andato in ospedale?”. No, questo non va. L’atteggiamento omertoso ed egoista non può prendere il sopravvento e ne ho avuto conferma quando ho incontrato il personale dell’Asp, come il dottor Giuffrida e le sue collaboratrici. Vederli all’opera mi ha lasciato una bella sensazione di ottimismo: le energie per far bene le abbiamo».

 

Qual è la prima cosa che farà, una volta guarito definitivamente?

Le dico qual è la mia massima aspirazione ora. Ho realizzato la progettazione di una bicicletta da corsa in legno di castagno d’Aspromonte. Questa bici è arrivata un paio di giorni prima che scoppiasse questo inferno, dopo un progetto di ben due anni. L’ho tenuta chiusa nello scatolo con l’obiettivo di presentarla, una volta superato questo momento. Bene, ai miei amici ho detto che vorrei presentare questa bici assieme a Santa, la donna di… Pietra Cappa (ride, ndr). Ecco, farò questa conferenza stampa, chiedendo a lei di essere presente, perché dobbiamo anche un po’ sdrammatizzare».

 

Professore, è consapevole di aver piegato il virus che spaventa il mondo e di aver evitato decine di contagi con la sua tempestività?

«Amo la mia terra, ma soprattutto amo i miei ragazzi. Ho solo fatto quello che chiunque di noi avrebbe fatto. E no, non ho ancora piegato definitivamente Covid-19. Preferisco attendere gli ultimi tamponi».

 

Auguri di pronta guarigione, allora.

«Grazie, non vedo l’ora di tornare operativo assieme ai miei studenti di Agraria».