Procede alla Corte d’appello di Reggio Calabria il processo “‘Ndrangheta Stragista” per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, assassinati il 18 gennaio del 1994 nei pressi dello svincolo autostradale di Scilla. L’udienza ha visto oggi in fase dibattimentale il pentito Annunziato Romeo rispondere al pm procuratore aggiunto distrettuale, Giuseppe Lombardo, in merito alle sue dichiarazioni riportate in un verbale del 1996. «Io non sono mai stato nella setta della ‘ndrangheta o in famiglie di mafia, quindi non posso sapere queste cose e non posso aver rilasciato quelle dichiarazioni».

Pur incalzato dal pm Lombardo, che più volte ha ricordato a Romeo di essere sotto giuramento, il pentito per quasi tutta l’udienza ha ribadito di non ricordare se «quel verbale sia il mio». I continui vuoti di memoria del pentito hanno portato il pm Lombardo a chiedere a Romeo se qualcuno lo avesse minacciato, ma la risposta è stata chiara: «Né adesso né in passato sono stato minacciato. Io non ho paura di niente e di nessuno ma ho cancellato tutto e non voglio più avere a che fare con nessuno, se qualcuno ha deciso che devo morire non mi interessa, non ho paura».

Romeo, che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 1995, ricorda di aver dato il via al suo percorso quando «ero in carcere con Morabito. Lui ha collaborato e io mi sono accodato. Ho iniziato a collaborare da detenuto per traffico di droga in Lombardia. Ero l’uomo di fiducia di Morabito. Morabito penso che fosse uno dei capi ma non lo so precisamente. Non so se il gruppo dipendeva da Morabito, è passata una vita non posso ricordarmi. Sono primo cugino di Saverio Morabito. Ma io non sono stato un uomo di ‘ndrangheta e non ho avuto a che fare con la ‘ndrangheta. Che io abbia lavorato alle dipendenze di Morabito non vuol dire che sono un uomo di ‘ndrangheta. Non ho mai fatto nessun rito o fatto parte di qualche setta».

Una negazione continua che si scontra con le parole riportate nel verbale del ’96 dove lo stesso Romeo, che oggi giura di «non aver mai fatto parte di famiglie criminali», sembrava, invece, essere ben informato di fatti e dinamiche. Evidenza questa rimarcata dal pm Lombardo: «Nemmeno la fantasia più sfrenata può riferire i particolari di questo verbale».
Il vecchio interrogatorio di Romeo, infatti, forniva uno spaccato nitido di quali fossero i legami della ‘ndrangheta di Platì e le sue proiezioni nelle istituzioni. «Il cugino di Paolo De Stefano (l’avvocato, ndr), Totò Delfino e Domenico Papalia sono i tre cervelli della ‘ndrangheta in Calabria», aveva riferito Romeo, ma anche questa affermazione si è scontrata in aula con l’ennesimo vuoto di memoria e la volontà di «cancellare tutto».

Oggi in aula i nomi di Rosario Barbaro, Totò Delfino e dei Papalia, come quello di don Stilo, sono, invece, diventati dei ricordi legati alla prossimità: «Li conosco perché sono di Platì, ne ho sentito parlare ma non so se facevano parte della ‘ndrangheta, io non sono nessuno per sapere queste cose. Io dubito che questo verbale sia il mio, non mi risulta che io abbia mai detto queste cose. Forse le ha dette Morabito e io le ho confermate».

Nel vedere negate oltre 60 pagine di verbale, Lombardo ha continuato a chiedere conto al pentito delle dichiarazioni rilasciate ai tempi che in parte toccavano i collegamenti della ‘ndrangheta «con i potentati massonici». Romeo oggi nega anche questo aspetto: «Io non ho mai parlato di massoneria, non credo di aver mai detto queste cose». Ma nega anche i rapporti con i Piromalli e di essere a conoscenza di «processi aggiustati dalla ‘ndrangheta, da Delfino, Barbaro e Papalia attraverso l’avvocato, il cugino di Paolo de Stefano altro cervello della ‘ndrangheta. Non sono a conoscenza, anzi in caso lo avrei fatto fare per me, per aggiustare il mio processo perché mi hanno condannato come organizzatore e promotore. Ma se io avessi saputo che potevano aggiustarlo per logica li avrei fatti intervenire». E alla precisa domanda del procuratore – «sapevate in anticipo delle indagini che vi riguardavano?» –, il pentito è stato secco: «No, anzi, ho preso un sacco di anni non so se gli altri avevano informazioni, io personalmente no».

Totò Delfino, disse Romeo, «è un massone e quello lì era il suo obiettivo, prendere tutta la strategia in mano lui e fare di Platì l’epicentro della ‘ndrangheta in Calabria, per essere rappresentante praticamente. Perché lui aveva appoggi politici, appoggi in magistratura e tante altre storie, quindi era una persona molto importante», ma oggi nulla di tutto questo è stato confermato in aula. Eppure Romeo nel ’96 dichiarava, come riportato nei verbali, che la cosca di Platì «era il numero uno in Calabria». Era «il più compatto, il più prestigioso, il più forte».

E anche in merito alla riunione che «si faceva una volta al mese ad Africo» ricordata da Lombardo, il pentito non ricorda: «Io non sono nessuno quindi non ho idea di queste cose, quindi non posso averle dette non so se questo verbale è mio. No, è impossibile che io abbia mai detto una cosa di queste altrimenti vuol dire che io sono un personaggio super importante». Ed effettivamente ai tempi Romeo si definì «factotum e uomo di fiducia di Barbaro che lei definisce il vertice nazionale».

Ma i vuoti di memoria sono continuati per ore e su diverse vicende che Romeo aveva già raccontato, come l’eliminazione del sindaco di Platì Domenico De Maio, il pentito dice di aver appreso come notizia: «Lo so come lo sanno tutti, ma non so chi lo voleva assassinare».