LaC News24 ha seguito e approfondito tutte le fasi dell’inchiesta condotta a Reggio Calabria, dalla quale Massimo Giletti avrebbe voluto attingere per le prossime puntate della sua trasmissione
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Quella foto sbiadita, brandita da Salvatore Baiardo e sulla quale Massimo Giletti avrebbe riconosciuto con certezza il solo Silvio Berlusconi e non gli altri due uomini ritratti, potrebbe essere il tassello mancante di un mosaico che passa da Firenze, prim’ancora da Roma e Reggio Calabria, ma che inizia a Palermo e termina Milano: la stagione delle stragi del ’92-’93, iniziata in Sicilia e proseguita nel Continente, non un semplice attacco diretto allo Stato per piegarlo al “papello” di Cosa nostra, ma una strategia della tensione ben più cinica e raffinata, ordita con la complicità di poteri e mandanti occulti per instaurare un nuovo ordine politico e istituzionale all’alba della Seconda Repubblica.
La foto esiste davvero?
Secondo la Verità, l’ex gelataio con la passione del poker amico dei fratelli Graviano avrebbe mostrato il presunto scatto anche a Paolo Mondani di Report, anche in questo caso senza consegnarlo. Ci ha quindi provato con il conduttore di Non è l’Arena, il quale – ha scritto Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, nel riportare un passaggio chiave del verbale reso ai pm di Firenze il 19 dicembre 2022 – ha riferito di non averla mai avuta in mano e di aver comunque dubitato della genuinità della sua fonte, procedendo con cautela alle necessarie verifiche. La foto è autentica? Gli altri due uomini sono davvero il boss mafioso e stragista Giuseppe Graviano e il defunto generale dei carabinieri e già al funzionario dei servizi segreti Giuseppe Delfino? Giletti sarebbe stato intenzionato ad andare avanti ricomponendo i pezzi del mosaico, nell’attesa di chiarire (o scoprire) l’autenticità del tassello mancante.
Cono d'ombra sul processo 'Ndrangheta stragista
Ed i pezzi del mosaico – in sostanza – erano già però già stati riordinati, dopo anni di indagini e udienze dibattimentali, dal più importante procedimento giudiziario in corso in Italia, che le grandi cronache nazionali (salvo rare eccezioni) hanno sin qui ignorato: ’Ndrangheta stragista, istruito dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Un maxiprocesso che è tale malgrado abbia soltanto due imputati – entrambi condannati all’ergastolo anche in appello – ritenuti (dai magistrati requirenti) gli ingegneri delle stragi ma non i soli committenti: Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio espressione della Cupola di Cosa nostra, in Sicilia e fuori dalla Sicilia, e Rocco Santo Filippone, espressione dell’alta ‘Ndrangheta, in Calabria. Rimasto in un cono d’ombra, la fine anticipata di Non è l’Arena su ‘Ndrangheta stragista finisce con l’accendere i riflettori paradossalmente più di quanto non abbia fatto la messa in onda della trasmissione stessa, chiusa – secondo quanto riportato da Salvatore Merlo su il Foglio – non per ragioni di censura ma per il calo degli ascolti, degli introiti pubblicitari e, quindi, della sua anti-economicità lamentata dall’editore Urbano Cairo.
Gli audio che Non è l'Arena non potrà rilanciare
Resta che la fine di Non è l’Arena ferma la ricostruzione del mosaico e a spiegarlo è un articolo di Paolo Orofino su Il Quotidiano del Sud, il quale evidenzia non solo il crescendo di attenzione del programma verso il materiale acquisito nel fascicolo del pubblico ministero di Reggio, ma anche la circostanza che lavorava ad alcuni file audio di ’Ndrangheta stragista. Fonte qualificata, essendo il cronista calabrese uno dei giornalisti che collaborava con Giletti nel reperimento del materiale processuale, in gran parte cristallizzato nel prezioso archivio di Radio Radicale. Quali erano gli audio? E quali connessioni esistono tra le deposizioni dibattimentali davanti ai giudici reggini e la presunta foto ritraente Berlusconi assieme a Graviano e al generale Delfino, la cui esistenza ora è addirittura negata da Baiardo che però – secondo quando scrive Lirio Abbate su Repubblica – ne ribadiva l’autenticità nelle intercettazioni acquisite dai pm di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco.
«Il Paese nelle mani»
Il primo, processualmente forse il più importante tra tutti, è quello relativo alla deposizione di Gaspare Spatuzza, resa tanto a Reggio in ‘Ndrangheta stragista quanto a Palermo al processo Trattativa Stato-mafia. Spatuzza, il pentito la cui attendibilità ha consentito di riscrivere la storia dello stragismo, raccontò in particolare dell’incontro al bar Doney di via Veneto, a Roma, con un Giuseppe Graviano decisamente raggiante, che gli avrebbe fatto «il nome di Berlusconi» e avrebbe fatto riferimento «al nostro compaesano Dell’Utri». Secondo Spatuzza, Graviano disse che «grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani». Siamo alla genesi della Seconda Repubblica e al decollo di Forza Italia, che – secondo i magistrati – rappresentava il nuovo investimento delle mafie dopo il crollo della Democrazia cristiana e della Prima Repubblica ed il tramonto dei movimenti separatisti meridionali. Ma Giletti sarebbe stato interessato anche ad approfondire non solo le intercettazioni in carcere su Giuseppe Graviano nel carcere di Ascoli Piceno, ma pure le dichiarazioni rese dallo stesso boss di Brancaccio in relazione ai soldi che dalla Sicilia suo nonno avrebbe portato nelle casse delle società immobiliari di Berlusconi per la costruzione di Milano 3.
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Il generale dei misteri
E il generale Delfino? Nulla nel processo ‘Ndrangheta stragista lo accosta a Berlusconi, Dell’Utri o Graviano, ma il suo nome è stato tirato fuori da alcuni pentiti in relazione ai suoi presunti rapporti con il boss ergastolano Domenico Papalia, specie in riferimento all’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, il quale avrebbe scoperto il legame tra lo stesso Papalia ed i servizi segreti. Papalia e Delfino erano entrambi originari di Platì. Platì ad un certo punto si trasferì in Lombardia, dove a Buccinasco fondò la cosiddetta Platì del Nord. Anche Delfino, in quegli anni, prestò servizio da ufficiale dell’Arma nella regione più ricca del Belpaese, distinguendosi nella stagione dei sequestri di persona. E proprio in quegli anni – raccontò ai pm di Reggio Calabria il pentito Nino Fiume – a Papalia giunse una ‘mbasciata dalla Locride, in particolare da Peppe Morabito il Tiradrittu, a sua volta interessato da Cosa nostra: non si doveva sequestrare «il figlio di Berlusconi».