Un annullamento per incompetenza territoriale, un altro solo per l’aggravante mafiosa, per il resto regge anche al vaglio della Cassazione l’impianto accusatorio formulato dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nei confronti di 28 imputati nel processo Mediterraneo. La Corte di Cassazione si è pronunciata sui ricorsi presentati da una gran parte degli imputati coinvolti nel procedimenti, annullando la sentenza di Giovanni Burzì, del quale si dovrà occupare la procura di Vibo, e di Domenico Signoretta, per il quale la Corte d’appello di Reggio Calabria dovrà pronunciarsi solo per rimodulare la pena.

 

Respinti tutti gli altri ricorsi e condanne che diventano definitive per Antonio Albanese 6 anni, Ippolito Mazzitelli 6 anni, Domenico Mazzitelli 6 anni e 6 mesi, Carmelo Stanganelli 10 anni e 4 mesi, Carmelo Cicciari 6 anni e 8 mesi, Gaetano Cicciari 7 anni, Stefano Sammarco 11 anni e 4 mesi, Cosimo Amato 6 anni, Fabio Cesari 8 anni e 8 mesi, Girolamo Magnoli 10 anni, Pasquale Saccà 8 anni e 8 mesi, Giuseppe Guardavalle 3 anni e 8 mesi, Eugenio Ferramo 2 anni e 4 mesi, Antonio Molè 11 anni e 4 mesi, Khayiam Ayoub Baba 13 anni e 4 mesi, Carmelina Albanese 2 anni e 8 mesi, Fiorina Silvia Reitano 6 anni.

Dichiarati inammissibili, inoltre, i ricorsi dei collaboratori di giustizia Arcangelo Furfaro, condannato in via definitiva a 12 anni, e Marino Belfiore 3 anni e sei mesi; Giuseppe Belfiore 6 anni, e Domenico Galati 2 anni e 4 mesi.

Ha retto, quindi, anche in Cassazione, quindi, l’impianto accusatorio portato in aula dai pubblici ministeri della Dda reggina Roberto Di Palma e Matteo Centini. Sono 28 le condanne divenute definitive

Nell’inchiesta Mediterraneo, condotta dai carabinieri reggini sotto il coordinamento della Procura antimafia, è stato accertato come il clan Molè si fosse riorganizzato dopo l’omicidio del boss Rocco Molè, avvenuto a Gioia Tauro il primo febbraio 2008 e la rottura della storica alleanza con la cosca Piromalli. Subito dopo il delitto, le nuove leve dei Molè spostarono i loro traffici di droga e di gioco d’azzardo nel Lazio. L’ordine di andare via da Gioia Tauro era stato dato dal capo storico della famiglia, l’ergastolano Girolamo “Mommo” Molè.