Per la donna è scattato l'obbligo di firma. Di Bari guidò la prefettura reggina nel periodo caldo dell'abbattimento dell'ex ghetto nell'area industriale della piana di Gioia Tauro
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La moglie di Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale, nonchè ex prefetto di Reggio Calabria e Vibo Valentia, è tra le 16 persone indagate nell’inchiesta per caporalato dei carabinieri e della procura di Foggia che ha portato all’arresto di cinque persone, due delle quali in carcere. L’operazione, portata a termine dai carabinieri della compagnia di Manfredonia e dal nucleo dei carabinieri dell’Ispettorato del lavoro, ha fatto finire in carcere due persone, un senegalese e un gambiano: altre tre invece, sono agli arresti domiciliari. Per altre undici è stato disposto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Per tutti le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Il periodo sotto indagine riguarda fatti accaduti tra luglio e ottobre del 2020. Nel corso delle indagini è stato chiesto l’assoggettamento al controllo giudiziario di dieci aziende agricole riconducibili ad alcune delle persone coinvolte nell’operazione. Per la moglie di Di Bari è stato disposto l’obbligo di firma, mentre lui si è dimesso da capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale. Michele Di Bari era rimasto per diversi mesi sotto i riflettori, durante la sua esperienza a Reggio Calabria, per la gestione dei migranti della piana di Gioia Tauro e per l'abbattimento della famigerata baraccopoli di San Ferdinando nel marzo del 2019. E con ogni probabilità, anche grazie al suo passato nella gestione dei migranti era stato promosso a capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale.