Nino Cuzzola guidava la moto a bordo delle quale viaggiava il sicario che ha ucciso Umberto Mormile, educatore carcerario di Opera che sapeva troppo sul rapporto tra la ’Ndrangheta e i servizi segreti deviati. Assolto nel processo di primo grado, Cuzzola è diventato uno dei pentiti chiave nei maxi processi degli anni 90 sulla mafia in Lombardia. Per il delitto Mormile si è autoaccusato di aver partecipato sia nella fase della preparazione che in quella dell’esecuzione: per lui, nel 2005, è arrivata una condanna in Appello.

Dal 2004 il collaboratore di giustizia racconta sull’omicidio commesso nel Milanese una verità prima ritenuta alternativa e ora considerata «concretamente prospettabile» dai giudici. Dai suoi verbali emerge, come movente, una «improvvida “indiscrezione” di Mormile che si era lasciato sfuggire (…) un commento sulla ragione per la quale nonostante la grave condanna inflitta a Domenico Papalia questi, frequentemente, fruisse di permessi carcerari». «Eh, ma tu non fai i colloqui con i servizi», avrebbe detto Mormile a un detenuto «di cui non si è mai appreso il nome».

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In termini più spicci, Cuzzola spiega che la colpa dell’educatore era quella di «non essersi fatto i c…i suoi». Mormile «doveva essere ucciso proprio perché si era lasciato sfuggire, con imperdonabile leggerezza, una sorta di “indicibile” e non rivelabile pettegolezzo con un detenuto di Opera, e ciò rappresentava una circostanza estremamente pericolosa per la stessa incolumità dei Papalia (ma invero di tutti i gruppi affiliati) e per la loro potenza di gruppo criminale».

In quella fase delicatissima, la «sopravvivenza» di quei clan calabresi «era inscindibilmente legata come in una “scacchiera” ai contatti e ai rapporti con membri dei servizi segreti».

La verità di Cuzzola: «Ce ne sono parecchi che fanno colloqui con i servizi segreti»

La stessa decisione di collaborare con la giustizia maturata da Cuzzola nasce da un moto d’indignazione: mentre molti picciotti collezionavano condanne, i pezzi grossi come i Papalia godevano di benefici grazie ai loro rapporti con pezzi deviati dello Stato, violando così le regole della ’Ndrangheta. «Ce ne sono parecchi che fanno colloqui con i servizi segreti – dice il pentito nell’udienza del 3 dicembre 2007 – perché questi poliponi qui si giocano al basso popolo, diciamo, della ’Ndrangheta». Stessa versione offerta nel marzo 2004 in fase di indagini alla Dda di Milano e poi ribadite nel processo ’Ndrangheta stragista nel 2018: «Mormile è stato ucciso (…) solo ed esclusivamente perché si è confidato con quel detenuto, che era amico dei Papalia, che ha esternato dalla sua bocca dicendo che Domenico Papalia aveva i permessi con l’appoggio dei Servizi». Cuzzola parla anche dell’utilizzo della sigla Falange Armata per la rivendicazione dell’omicidio. E racconta tutto in maniera «dettagliata e circostanziata». Le sue dichiarazioni sono ritenute attendibili e i giudici decidono di riportare nella sentenza un verbale dell’11 marzo 2019 in cui il pentito fa ampi riferimenti «agli oscuri collegamenti tra i Papalia e le frange deviate dello Stato “corrotte” in loro favore».

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Cuzzola rilegge alla luce di questi rapporti quelle che considera «strane anomalie nella vicenda processuale che ha riguardato l’omicidio Mormile». Il pentito parla, in particolare, di due imputati assieme a lui nel processo di primo grado (uno dei due è un nipote di Papalia) «e condannati a 30 anni». I due avrebbero poi partecipato e presenziato al processo d’Appello «non da detenuti come ero ad esempio io, ma in regime di semilibertà, circostanza che mi è sempre sembrata strana e che non mi spiego». I due, al termine del processo d’Appello, sarebbero «spariti, nel senso che non mi risulta siano stati né condannati né assolti né stralciati. Successivamente sono stati nuovamente imputati in primo grado con Domenico Papalia nel processo sempre relativo all’omicidio Mormile; processo all’esito del quale entrambi sono stati assolti. Il fatto che queste persone, pur imputate di omicidio, potessero godere della semilibertà è a mio avviso del tutto anomalo».

’Ndrangheta e servizi, il summit (saltato) tra Piromalli e Papalia 

La voce che i Papalia avessero rapporti con i servizi segreti era arrivata anche in carcere. Lo racconta Cuzzola nello stesso verbale: il pentito è detenuto a Cuneo insieme a Pino Piromalli e Santo Paviglianiti. «In un’occasione in cui eravamo tutti e tre a parlare – ricorda – Pino Piromalli confidò a Santo Paviglianiti di essere venuto a conoscenza tramite il proprio zio, Momo Piromalli, che Domenico Papalia aveva rapporti con i servizi segreti, rapporti dei quali Momo Piromalli aveva acquisito anche prova documentale, ovvero delle carte scritte che attestavano gli accordi intervenuti. Pino Piromalli ci disse che suo zio ne era venuto in possesso per il tramite di un colonnello dei carabinieri che all’epoca operava nella zona di Gioia Tauro e che in precedenza era stato nei servizi segreti».

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Una volta venuto in possesso dei documenti, Momo Piromalli, «prima di morire, aveva organizzato un incontro con Domenico Papalia». Un summit «a metà strada tra Platì e la Piana di Gioia Tauro» che era stato organizzato «per chiedere a Domenico Papalia conto e ragione dei suoi rapporti con i servizi segreti». Saltò tutto perché «la mattina stessa dell’incontro Domenico Papalia venne arrestato». Successivamente, si conclude il racconto di Cuzzola, «Momo Piromalli venne a sapere, sempre dallo stesso colonnello dei carabinieri che gli aveva fornito copia di queste carte, che Domenico Papalia, all’epoca latitante per l’omicidio di Totò Agostino, si era spontaneamente costituito ai carabinieri, evidentemente per evitare questo incontro per lui molto pericoloso». Non tutto il gotha della ’Ndrangheta vedeva di buon grado la collaborazione con i servizi segreti deviati nata in Aspromonte all’epoca dei sequestri di persona. Piromalli era solo uno dei tanti a manifestare dubbi su quei rapporti. Non l’unico, come chiarirà ancora Cuzzola nel corso di quell’interrogatorio.