«Lei doveva morire nella bomba, non quell’altro…».
«Dite che non esco? Io non esco, ma se esco…».

Con spregiudicato disprezzo, Rosaria Mancuso, si rivolgeva direttamente ai carabinieri. Era il giorno del suo arresto, proprio mentre i militari della Benemerita si apprestavano ad accompagnarla nel carcere femminile di Reggio Calabria, subito dopo la notifica del fermo d’indiziato di delitto spiccato dal procuratore Nicola Gratteri e dal sostituto Andrea Mancuso.

Imprecava, incurante che gli uomini del colonnello Magro avrebbero annotato tutto, contro Sara Scarpulla. Per Rosaria Mancuso era chiaro il concetto: non doveva morire Matteo Vinci, nell’attentato terroristico mafioso consumato a Limbadi il 9 aprile, doveva morire sua madre, Sara Scarpulla.

E’ un particolare che emerge dall’ordinanza firmata dal gip distrettuale Francesco Zampaoli: che – accogliendo la richiesta della Procura antimafia di Catanzaro – ha lasciato in carcere oltre Rosaria Mancuso, anche il genero Vito Barbara e la figlia della donna, Lucia, per il concorso, in veste di mandanti, nell’omicidio di Matteo, e suo marito Domenico, per altre contestazioni di reato.

Secondo il gip, alla luce degli elementi acquisiti dai carabinieri di Vibo Valentia e dalla Dda, gli indagati intendevano organizzare un nuovo ed ulteriore attentato, contro quella donna che non esitò a puntare l’indice sui Di Grillo-Mancuso e suo marito, sopravvissuto miracolosamente alla deflagrazione che ha ucciso  suo figlio.

 

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