C’era un riassetto degli equilibri da sistemare, negli anni che vanno dal 2010 al 2011, nel territorio di Gallico. Lo sapevano bene i “condelliani”, cartello mafioso fiaccato da anni di inchieste e dalla cattura di personaggi di primo piano del loro scacchiere.

Solo gli sciocchi possono pensare che non vi siano state delle conseguenze ben precise sin dal febbraio del 2008, da quando cioè, l’uomo che prendeva tutte le decisioni ed aveva potere di vita o di morte sui suoi sodali, fu arrestato. Pasquale Condello “il Supremo”, infatti, finì in cella e con lui quella possibilità di continuare a gestire il potere in tutti i quartieri della città. Ma forse, il capo assoluto dei Condello, non poteva prevedere che, nonostante la presenza di Domenico Condello “u pacciu”, ultimo dei grandi boss rimasto latitante fino al 2012, le frizioni esistenti all’interno del clan storicamente egemone ad Archi avrebbero prodotto alcuni omicidi eccellenti che sapevano di aggiustamenti in corsa per affermare il predominio.

 

È esattamente ciò che è accaduto con l’omicidio di Domenico Chirico, prima, e di Giuseppe Canale dopo. Due uomini assolutamente di primo piano nello scacchiere della cosca, residenti entrambi in quel fazzoletto di terra che è Gallico, crocevia d’interessi che s’intrecciano inesorabilmente, fra la zona di Villa San Giovanni e il feudo di Archi. A ciò, vanno aggiunti gli effetti devastanti che provocò l’indagine “Meta”, che portò in cella il gotha del crimine della zona nord di Reggio Calabria, con condanne pesantissime.

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Il vincolo indissolubile

Sono le parole contenute nell’ordinanza di custodia cautelare a descrivere al meglio cosa è realmente accaduto in quell’anno a Gallico. «Appare necessario sottolineare – scrive il gip – che deve allontanarsi la tentazione di inferire, dall’avvenuta cattura o dalla scomparsa dei capi della cosca in esame, la intervenuta caducazione di esigenze cautelari, rilevanti ai fini dell’adozione della postulata ordinanza custodiale; ciò che deve assumere valore dirimente è la natura stessa dei vincolo indissolubile che lega i compartecipi ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, vincolo che non cessa ma si trasforma in presenza di eventi traumatici certamente in grado di alterare la scala di priorità cui si ispira l’azione criminosa dei singoli associati».

 

La cattura non manda in crisi il clan

Secondo i giudici, dunque, «l’intervenuta cattura dei soggetti di vertice o la loro scomparsa, è un evento di eccezionale gravità ove rapportato alla vita delle singole articolazioni territoriali, ma tale enorme portata non lo rende comunque portatore di effetti disgreganti sul legame che caratterizza l’organizzazione criminale di tipo mafioso unitariamente considerata». Ecco allora che «la cattura o la scomparsa del capo non mette in crisi la cosca né pregiudica la sua sopravvivenza, non scioglie l’accordo costitutivo e non muta il condiviso programma criminoso: impone, questo appare evidente, aggiustamenti nelle strategie conservative ed espansionistiche, prescrive nuovi organigrammi in grado di garantire la fruttuosa gestione di una organizzazione complessa e ramificata, ricolloca all’interno di tale struttura i soggetti incaricati di gestire la eventuale successione o latitanza del capo-mafia».

E nemmeno gli omicidi...

Con riferimento ai soggetti che hanno un simile incarico, i giudici proseguono nell’analisi, spiegando come «proprio per il ruolo già ricoperto e la loro conseguente strema vicinanza al vertice associativo, tanto da divenirne tutori con il supporto dell’apparato di protezione tipico dell’associazione per delinquere, assumono nel mutato assetto un ruolo di estremo rilievo che li pone in posizione verticistica: tale forma di automatismo trova la sua ragion d’essere nelle caratteristiche stesse del sistema criminale, in assenza di alcuna frizione interna o guerra di successione aperta dalla cattura del suo capo Domenico Chirico, tutela i propri membri e affida alle proiezioni soggettive del personaggio di vertice, deceduto o in vinculus, ruoli sempre più qualificati e rilevanti».

L’omicidio Canale, dunque, matura in un sistema mafioso che trae origine dalla necessità di riaffermare il potere egemonico della cosca.

Consolato Minniti