Il suo nome sembrava ormai buono per le emeroteche o al più per gli amarcord giudiziari, ma il passato non si cancella. Specie se ti chiami Edgardo Greco, l'ultimo latitante cosentino arrestato nelle scorse ore nella città di Saint-Etienne dopo quattordici anni d'invisibilità. Pare li abbia trascorsi tutti all'estero, forse non solo in Francia, anche se gli ultimi accertamenti investigativi lo volevano spesso di ritorno nella sua terra d’origine.

Quattordici anni, quasi quindici. Un lasso di tempo in cui la sua “impresa” è stata adombrata da quella di altre primule di grosso calibro come Ettore Lanzino e Franco Presta, ma non per questo la Dda si era dimenticata di lui. Lo dimostrano le dichiarazioni degli ultimi collaboratori di giustizia, verbali depositati agli atti delle recenti inchieste antimafia. Rivelatorie, in tal senso, non sono tanto le risposte dei pentiti, quanto i quesiti che pone loro il pm Camillo Falvo. Tra omicidi irrisolti, racket e droga, trovano posto anche domande su Greco: «Lo conosci?», «e di lui che mi dici?», «sai che fine ha fatto?». Hanno continuato a cercarlo, insomma. In realtà non hanno mai smesso.

Lo chiamavano il “Killer delle carceri”, soprannome fin troppo generoso ottenuto all’inizio degli anni Ottanta quando tenta di accoltellare Franco Pino durante l'ora d'aria nella casa circondariale di via Popilia. Non riesce a ucciderlo, ma da quel momento il suo prestigio criminale cresce a dismisura. Abile rapinatore di banche e furgoni portavalori, aderisce al clan Perna-Pranno quasi per caso. In quel periodo, infatti, lui e suo fratello Riccardo subiscono un pestaggio da alcuni affiliati del gruppo Pino. A quel punto, la scelta di campo diventa scontata per entrambi.

Accadeva una vita fa. Da allora, Edgardo Greco ha cambiato pelle più d'una volta. Collaboratore di giustizia, pentito di essersi pentito e, infine, inafferrabile primula dall'ottobre del 2006, epoca in cui sfugge al blitz di “Missing”. È l'inchiesta che in seguito decreterà la sua condanna all’ergastolo per il duplice omicidio dei fratelli Stefano e Pino Bartolomeo risalente al 1992. C’era anche lui, infatti, nella pescheria di via Migliori quando i due fratelli secessionisti, attirati con un tranello all’interno del locale, sono uccisi a colpi di semiassi utilizzati come spranghe. I loro corpi non saranno mai più rinvenuti.

Anche di lui, negli anni a venire, si perde ogni traccia. Una dozzina di anni di dimenticatoio, intervallati da una fiammata nel 2008, quando gli investigatori s’illudono di averlo acciuffato in Spagna, nella località andalusa di Algeciras. In realtà si trattava solo di suo fratello Riccardo, alias “Cesarino”, parimenti coinvolto in un’inchiesta antimafia - nome in codice Anaconda - e poi morto suicida nel carcere di Rebibbia, il 9 agosto del 2010. Gli ultimi accertamenti investigativi lo volevano in Germania, dove risiede un suo parente coinvolto nell’ultima inchiesta antimafia contro le cosche cosentine, ma gli investigatori ritengono abbia fatto più volte capolino in Calabria: forse ad Amantea, forse a Montalto. Alla fine lo hanno acciuffato in Francia, dove si nascondeva sotto falsa identità e, per vivere, faceva quello che ha sempre fatto fin da giovane: il cuoco.