Arance calabresi vendute ai produttori siciliani che le piazzano sul mercato con il proprio marchio Igp. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questa inchiesta giornalistica, raccontando cosa accade nel Reggino, dove un’eccellenza dell’agricoltura calabrese spesso arriva nei supermercati con il marchio di un’altra regione più blasonata di quella calabrese. Un comparto, quello degli agrumi in Calabria, che ha subito un tracollo negli ultimi 10 anni, con la produzione dimezzata e poche aziende che, eroicamente, continuano a puntare sulla qualità, soprattutto sulla fascia Jonica.

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L’altra faccia della medaglia è rappresentata dallo sfruttamento degli immigrati impegnati nella raccolta e dall’ombra della ‘ndrangheta.

Il mercato del lavoro

Circa 5 centesimi al kg il costo, al produttore, per il lavoro dei raccoglitori impegnati tra novembre e maggio. Cifra che sale, nel caso dei mandarini, fino a 15 centesimi. Si tratta prevalentemente di manodopera straniera che in troppi casi continua ad essere vittima del lavoro “grigio”, quello cioè che, sulla carta è regolato dalle regole vigenti, ma nella sostanza continua ad essere un suk fatto di “giornate” regolarizzate al minimo indispensabile e valanghe di nero. Sono dei lavoratori migranti, principalmente africani, le braccia che ogni inverno raccolgono le nostre arance. Pochissimi gli italiani. Almeno quelli veramente sui campi, visti i numeri delle false giornate agricole cristallizzate da tante inchieste della magistratura. E se, sulla fascia jonica, si è riusciti ad evitare le situazioni di degrado tipiche degli “insediamenti spontanei” di lavoratori stagionali, e si è riuscito in gran parte a regolarizzare il lavoro stabilizzandolo sull’asse delle ore lavorate, nella Piana di Gioia Tauro, il grande afflusso di immigrati stagionali ha favorito l’insediamento di baraccopoli invivibili popolate di moderni schiavi pagati principalmente “a cottimo” e ridotti a condizioni di vita subumane. 

Le baraccopoli

Circa 1500 gli operai stagionali di provenienza extracomunitaria che, tra disagi difficilmente immaginabili nel 2024, popolano gli insediamenti spontanei sorti – prima e dopo la rivolta del 2010 – nel territorio della Piana di Gioia Tauro. Nella tendopoli alle spalle del porto, nei casolari abbandonati nelle campagne tra Rosarno, Rizziconi e Taurianova, in container allestiti più di 10 anni fa: quasi tutti con i documenti in regola, i lavoratori africani stagionali che, seguendo il ciclo delle coltivazioni, si muovono dove il mercato li richiede, cominciano ad arrivare nella Piana nel mese di novembre (anche se negli ultimi anni gli operatori hanno registrato una percentuale in crescita di lavoratori “stanziali”) per sistemarsi negli alloggi di fortuna della zona. Privi di energia elettrica e di acqua corrente con condizioni di vita difficilmente immaginabili per i canoni europei, gli insediamenti sono spesso teatro di degrado sociale, razzismo, incendi letali e risse con morti e feriti. Una pagina di vergogna che continua nel tempo e che va avanti nonostante i tanti soldi buttati finora per sanare la situazione. «Cinque milioni e mezzo sono stati spesi ad oggi per la realizzazione di alloggi che non hanno mai aperto i battenti. Di questi, 3 milioni provengono dall’Unione europea – hanno scritto qualche giorno fa i dottori di Medu (medici per i diritti umani) presenti nella tendopoli 3 volte la settimana – e sono stati destinati alla costruzione di sei edifici per un totale di 36 appartamenti a Rosarno. Ulteriori 2 milioni sono stati stanziati dal Ministero dell’interno per la creazione del “villaggio della solidarietà” su un terreno confiscato ai Bellocco. Infine 650 mila euro sono stati investiti per la realizzazione di un centro polifunzionale mai attivato in contrada Donna Livia, nel comune di Taurianova».

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La ‘ndrangheta

Per il controllo materiale del territorio o per guadagnare fette di consenso grazie alle finte giornate agricole garantite (dietro pagamento) ad altrettanto finti braccianti: quello della ‘ndrangheta con il settore degli agrumi è un rapporto antico. Un rapporto che si è consolidato negli anni delle “vacche grasse”, quando i contributi europei cadevano a pioggia, e che è continuato in quelli di magra, adattandosi alle rimodulazioni del mercato. «Lì raccolgono mi pare 100 o 200 euro all’ettaro. C’è un tariffario sì, anche per chi compra i mandarini c’è il tariffario. Non è che uno va e compra così, deve dare conto pure al guardiano. Là a Rosarno funziona così». Era stato il collaboratore di giustizia Vincenzo Albanese a raccontare agli investigatori come funziona, nella Piana di Rosarno, il controllo del territorio da parte del crimine organizzato (nello specifico la cosca dei Bellocco) sugli agrumeti della zona. E se, almeno in parte, il mercato “a valle” è condizionato dalla ‘ndrangheta, anche le alienazioni dei terreni sono, spesso, vittime del boss di turno: «Ora lo chiami e gli devi dire o di venire a parlare o ti restituisce la terra indietro, di lasciare la terra perché non è la sua… con tutti noi stiamo facendo così, perché lui non può andare e comprare», diceva intercettato un gregario del boss ad un agricoltore che aveva venduto il suo “giardino” ad un terzo soggetto senza prima chiedere il permesso. Ma anche quando il controllo non è esercitato direttamente, le cosche riescono a “monetizzare” in modo criminale il possesso delle terre grazie all’elargizione fittizia di finte giornate agricole, vendute sul mercato degli ultimi, in fila per ottenere i sussidi di disoccupazione. Un modo come un altro per creare consenso.