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Più che un appello, una sfida; ma anche una richiesta di aiuto che diventa sfogo, affidato – ovviamente – al social network Facebook. Ha fatto molto riflettere l’intreccio di rabbia e dolore che ha generato le parole di Marina Prestia, la sorella del ragazzo ucciso da un suo amico a Mileto.
Un caso ancora aperto. “Il chi sa parli” sintetizzato nei titoli dei giornali, in realtà, va oltre l’invito a “confessare” e ci offre l’ulteriore spaccato di un delitto che sembrava “chiuso” – la vittima, il reo confesso, l’amico che forse li ha fatti incontrare, la ragazzina contesa e nessun altro – e che, invece, per primi i famigliari di Francesco considerano aperto. Marina, scrivendo su internet – e quindi saltando ogni mediazione che pure il legale di famiglia o le agenzie organizzate potevano fornire – in maniera accorata si rivolge agli amici del fratello, solidali nel lutto ma evidentemente solo fino ad un certo punto.
La dinamica dell'amore e del sacrificio. A loro ricorda la frase manifesto con cui la vittima si presentava su wat’s app - “meglio crepare che tradire” -, li schernisce quando scrive “non bastano le foto con le dediche”, e quasi li colpevolizza quando afferma: “so e sapete che non sarete mai ai livelli di mio fratello perché lui ha perso la vita proprio per questo: lui amava gli amici”.
L’indistinto richiamo che la giovane fa sembra tracciare una quasi contrapposizione, all’indomani dei funerali, tra la famiglia della vittima e l’ambiente, il gruppo, la comitiva a cui – solo qualche ora prima – si era accomunata indossando la stessa maglietta con la foto di Francesco realizzata dagli amici.
E allora ci pare che non sia giusto archiviare il caso di Mileto solo come quello dell’omicidio di un ragazzo commesso da un coetaneo; e neanche come il caso dell’amico che uccide un rivale in amore, e la vicenda – men che meno – va considerata esclusivamente come il solito dramma per una ragazza contesa aggravato “dall’onore del figlio di ‘ndrangheta” pulito col sangue.
Nel “prima, durante e dopo” il fatto di sangue emergono contesti sociali che al netto delle possibili implicazioni penali chiamano in causa le dinamiche classiche dei “gruppi chiusi”, siano essi la comitiva di amici o la stessa comunità cittadina.
La sfida all'autoreferenzialità. E’ per spezzare questa consegna al silenzio che Marina scrive, e lo fa scegliendo lo stesso codice valoriale – l’invito a non tradire, fino al sacrificio di sè - e lo stesso strumento social usati dai gruppi che intende scuotere: la stessa ragazzina il cui legame sarebbe stato alla base dei dissidi fra i due amici, aveva scelto Facebook per esternare i suoi sentimenti.
Se però c’è una frusta in più nelle sue parole, essa è data dalla domanda di “giustizia” che la ragazza invoca. Lo fa sempre tramite i social network, disattendendo il monito di Mons. Renzo - che nella veglia di preghiera per la vittima aveva invitato i ragazzi ad “essere meno virtuali” – ma anche in questo caso l’istinto è quello di tramortire “i mondi chiusi” usando gli strumenti aperti per definizione.
La giustizia come valore collettivo. La giustizia è solitamente per i giovani un valore fresco; non è una pratica vista nei Tribunali, osservata nei talk show o sentita in piazza: la famiglia e la scuola, più che la politica, possono promuoverla come idea e azione.
In una regione come la Calabria, spesso teatro anche di vendette sanguinose, è molto significativo il percorso logico a cui giunge il dolore provato da questa ragazza. La richiesta forte è quella di un’elaborazione del lutto, collettiva, ma fondata sullo scardinamento delle regole del “mondo chiuso”. Servirà ad ottenere una collaborazione che a questo punto sembra fondamentale per chiudere un caso che chiuso non è?
Agostino Pantano