INTERVISTA | Sono 23 le persone rimaste uccise dentro e fuori gli stadi dal 1963 ad oggi. Lo scrittore e giornalista Massimiliano Castellani analizza il fenomeno partendo dall’ultimo tragico episodio che si è consumato in occasione di Inter-Napoli
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Nun c’è bisogno ’a Zingara p’anduvinà, Cuncè. Certo, non era difficile prevedere tempi e modalità degli sfracelli ultras: il cliché dei disordini fuori e dentro gli stadi è ormai di tale geometrica coerenza da renderci tutti profeti, tutte Cassandre. Resta il fatto tuttavia che l’analisi del giornalista e scrittore Massimiliano Castellani (foto) ospitata sulle colonne de LaC News 24 la scorsa settimana («Le tifoserie non combattono più solo tra loro: è una guerra tra bande di ultras e le forze dell’ordine») è stata confermata neanche 48 ore più tardi dalle dinamiche degli scontri per Inter-Napoli. E a Milano, questa volta, c’è scappato il morto.
Una guerra del tutti contro tutti (meglio però se sbirri, negri o meridionali) che non è più “guerra del pallone”. È solo un caos da poracci, venuti a San Siro persino da Varese e da Nizza per menare le mani contro napoletani e Polizia. Roba che con il calcio e le curve d’un tempo ha poco, pochissimo a che fare. Torniamo quindi con Castellani sulle morti del pallone. Storiacce opache, che passano anche per la Calabria.
A Milano, l’ultimo di quelli che lei ha definito “morti da stadio”. Come valutare i fatti di San Siro?
«Prima di parlare di vittime, va fatta una distinzione tra il “morto da scontri da stadio” (Ciro Esposito, e, appunto, Belardinelli) ed il “martirio da stadio”, la pallottola volante che uccide tifosi inermi come Plaitano a Salerno (1963) e il dj laziale Gabriele Sandri (2011). Quanto a San Siro, è un clichè che si ripete. Con un mondo ultrà sgretolato e ridotto a sciacalli che si danno appuntamento via social per darsele, la palla avvelenata secondo me passa a Digos e Polizia Postale. Queste orde balorde si minacciano per tutta la settimana, per regolare conti in sospeso che hanno poco a che fare con il calcio. E agiscono nell’indifferenza generale, alzando l’onda emotiva, che diventa uno tsunami, solo quando di mezzo c’è il morto. Politici, forze dell’ordine, sociologi, commentatori, giornalisti siedono pacificamente in tribuna finché non arriva la vittima sacrificale. Poi, con la tragedia, tutti trovano l’occasione per parlare e per strumentalizzare».
A quanto ammonta il numero delle vittime sacrificali del calcio?
«Con Belardinelli, dal 1963 a oggi siamo a 23 morti registrate tra la serie C e la serie A. Per inciso Belardinelli, piastrellista di Morazzone con due Daspo alle spalle, e ultras del Varese, doveva essere ovunque tranne che lì, a San Siro. E per inciso, le tragedie da stadio verificatesi da mezzo secolo in qua, sono state paradossalmente anche poche, se rapportate alle centinaia di partite stagionali e al peso della violenza ultrà. Una violenza potentissima dagli anni '80 alla metà del 2000 che ora tende a scemare in rivoli, altrettanto pericolosi perché sgorgano all’improvviso e con dinamiche sempre diverse. Se poi scendiamo nel dilettantismo ci accorgiamo che la casistica viene spesso rimossa e cancellata dal computo delle vittime da stadio».
Come si inserisce in questa conta la Calabria?
«La Calabria lascia sul campo un giocatore simbolo, una bandiera: ma siamo di fronte ad una vittima del calcio, ucciso da agenti esterni. Parliamo del centrocampista del Cosenza Denis Bergamini, ucciso nel 1989, (ma umiliato dopo la morte con una messinscena che facesse pensare ad un suicidio, ndr). Una morte che rappresenta una delle pagine più buie del nostro calcio. Tra l’altro, al giocatore, proprio nei giorni scorsi, giovedì 27 dicembre, la città di Cosenza ha dedicato un murales. Alla cerimonia sono intervenuti sostenitori e tifosi vecchi e nuovi, anziani e giovani, appassionati, amici. Si è ritrovata l’unità del calcio d’un tempo, sembrava quasi una grande manifestazione di piazza. E in fondo, lo era, visto che ormai, grazie alla tenacia ed all’impegno del Pm di Castrovillari, Eugenio Facciolla, siamo alla vigilia di una nuova fase giudiziaria. Dopo 30 anni di depistaggi e insabbiamenti, finalmente qualcosa si muove: e da gennaio in poi, ogni giorno può esser quello buono, per l’apertura del processo che restituirà giustizia e verità alla famiglia del campione, a cominciare dalla sorella Donata, paladina della battaglia per onorare la memoria di Denis».
Bergamini è stato l’unico morto di calcio, in Calabria?
«Il vero martirio da stadio si è consumato a Luzzi, provincia di Cosenza: il campo in cui morì Ermanno Licursi, dirigente della Sammartinese. Un 40enne, ammazzato da un pugno, al termine di una partita di terza categoria. Qui la dinamica è più chiara: invasione di campo, tafferugli, botte, e Licursi muore. Era il 2007, e quell’anno il Sud aveva già avuto la sua vittima: alla fine di Catania-Palermo, il derby di Sicilia, gara ad altissimo rischio, si consumò l’omicidio dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti, schiacciato da una camionetta durante gli scontri fuori dallo stadio Massimino».
Come descriverebbe la galassia del tifo?
«Scollegata dalla società, dall’organizzazione centrale della curva, che non esiste più, e con pochi contatti persino tra sostenitori della stessa squadra. Guardiamo alla fine che hanno fatto i grandi capi ultras, personaggi che negli anni ‘80 e ‘90 tenevano in scacco i club, con i quali tutti i dirigenti dovevano scendere a patti, pena lo svuotamento degli stadi. Penso a Diabolik, vecchio capo ultras della Lazio. Gente che controllava migliaia di persone, oggi scomparsa, emarginata. Nella migliore delle ipotesi in comunità. L’organizzazione della curva centrale si è dissolta con le infiltrazioni della camorra, della mafia e della ndrangheta. Intorno, sciacalli che si menano. Delle mine vaganti, la feccia della società, l’espressione della Suburra, capaci di coinvolgere anche luoghi e soggetti civili, che niente hanno a che fare con loro, o con una partita di calcio».
Secondo lei, è impossibile contenere questa guerriglia, o manca la volontà effettiva? Che ruolo ha la politica?
«Un vera politica di controllo e una nuova cultura sportiva da parte dei club, supportati dalle Istituzioni, potrebbe abbassare il livello di tensione: ma le morti da stadio sono semplicemente la spia di una società profondamente malata, che ha perso ogni punto di riferimento. E la politica strumentalizza. Il vice premier Salvini va a discutere con i capi ultrà, riconoscendoli come interlocutori. Con questa ulteriore apertura di credito, da un lato si ufficializza la funzione politica “apripista” delle frange più estreme, dall’altra si decreta la morte del tifo sano e libero, quello per intenderci dove capi ultras modello Jenny la Carogna o appunto Diabolik (nomen omen, in entrambi i casi) non avrebbero ragione di esistere. Quanto alla politica, c’è sempre stata nelle curve. Tutti ricordano la presa in giro dei tifosi del Livorno, le diecimila mila bandane che invasero San Siro a scherno di Berlusconi, nei tempi d’oro della sua presidenza Milan e all’indomani del celebre trapianto di capelli. Oggi, è altra storia. Il calcio è specchio del momento attuale: anarchia sociale e deriva politica verso una nuova fascistizzazione del Paese».