I tanti che c'erano anche senza clamore mediatico nel piazzale ora dedicato all'ispettore del Lavoro che denunciava il sacco edilizio erano lì per un inchino all'antico dolore dei figli, per un dovere personale e senza etichette, per un obbligo civile
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Nel pomeriggio di Reggio, il sole non trova ostacoli alla sua insistente bellezza e i colleghi operatori – invece – incontrano difficoltà per le inquadrature giuste sulla piazza.
I giornalisti no, il problema di lavorare di sabato per l'intitolazione a Demetrio Quattrone di un bell'angolo della città – tra il Castello e il Tribunale - non se lo sono neanche posto. Tranne Angela, Mario e Luigi e pochi altri che vedo ma non conosco, i cronisti che spesso scopiazzano pezzi sulle guerre di mafia del passato di questa città, erano assenti.
Si fa memoria di un caduto per la 'ndrangheta di quella storia anche così, come in un abbaglio che confonde la misura delle cose, quando nessuna scuola tempesta le redazioni di inviti al galà dell'antimafia, non ci sono paladini delle associazioni da passerella che ti stressano personalmente, e prefettura e questura – poi – non mandano uniformi buone per uscire sui giornali.
La retorica è finita
È finita così per qualche ora almeno, ed è una fortuna, la retorica della memoria antimafia: i tanti che c'erano, anche senza clamore mediatico, nel piazzale ora dedicato all'ispettore del Lavoro che denunciava il sacco edilizio, c'erano per un inchino all'antico dolore dei figli, per un dovere personale e senza etichette, un obbligo civile non imbeccato da un Comune rappresentato dall'assessore ai Rifiuti, però con la fascia, e da un consigliere che ha parlato di toponomastica assimilando i martiri di una resistenza e i principi del granducato dell'apparenza.
I visi di una resistenza senza orpelli
C'è ugualmente il ricordo di una vittima del 1991, fatti vecchi che vengono ricordati per la prima volta, e Santo arriva da Gioia Tauro – sa che non è previsto che prenda il microfono – eppure vuole mostrare a tutti una vecchia copia di giornale, un articolo sul “suo” ispettore che, a lui sindacalista, lo inorgogliva quando faceva i sopralluoghi alla diga sul Metramo.
Ci sono Roberta e Bruno, figli anche loro di un lutto che non si cancella, e anche loro protagonisti dell'antimafia post ideologica, che ha dovuto imparare a fare a meno delle associazioni per tarare ciò che è veramente sentito da ciò che è solo passerella. C'è Lucia che il pianto degli amichetti di scuola – rimasti orfani dopo un agguato impunito - se lo ricorda e lo rivive scrivendone sui social, in questo nuovo regno mediatico che allarga solo se c'è credibilità. C'è Francesca e c'è Alessio che per anni hanno testimoniato, con la parola e con i viaggi, un dovere che avevamo – noi giornalisti, noi coscienza critica – di farci popolo, di non essere burocrati del “riceviamo e pubblichiamo”, di essere autorizzati per una volta a non essere media: non ci dovrebbe essere medianità nelle notizie sulla mafia, oggi scopriamo invece che c'è molta mediocrità nel selezionare ciò che è giusto ricordare e ciò che è possibile dopare.
Il timore del ricordo
Eravamo in tanti per Demetrio Quattrone, e conta che c'eravamo senza bandiere e stemmi, senza cortei ma con parole da significare, come quelle usate da un suo collega ispettore venuto da Napoli per dire: ho provato ad essere come lui. L'ha spiegato Maria Antonietta, un'amministratrice venuta da Carlopoli, che l'ingegnere integerrimo che annotava nei suoi diari le porcherie che denunciava, è stato ricordato prima fuori dalla Calabria e poi, dopo troppi anni, qui. Vergogna che il popolo arrivato in piazza senza passaparola altisonanti ha sanato, non per contarsi ma per dire che quando una storia è credibile, è spiegata con passione e pazienza, essa diventa storia collettiva: 28 anni di oblio, di trascuratezza di un principio basilare, che la lotta non è solo repressione ma è anche e soprattutto prevenzione culturale, fondando impegni di chi è vittima nell'ombra.
Serve ai familiari e serve a tutti noi, un'antimafia che si sfronda e sfronda il cerimoniale, e la tenacia di Rosa e dei suoi fratelli – cimentatasi anche attraverso l'impegno in organizzazioni che della memoria hanno fatto vanto – non è che uno stimolo, per tutti noi, a non sentirsi orfani di un modello comodo che ha fatto il suo tempo. Anche senza giornalisti che trovino il tempo di volerlo raccontare, questo dovere civile che non si appalta, specie quando a rimetterci la vita è un servitore dello Stato che svolgeva il suo compito e non si è voluto in tutti questi anni farlo diventare un esempio da cui ripartire.