Il rosario delle mater dolorosae, il florilegio delle martiri immolate col supplizio dello standing in esercizio commerciale, tanto frequenti nei locali pubblici calabresi di ogni ordine e grado, registra oggi una nuova eroina. La signora leggermente agée che governa, remota e imperscrutabile come una Pizia, il bar fossile della stazione ferroviaria più importante per il turismo regionale (il cui nome si omette, per non esser tacciati di accanimento).

La Pizia

Età, espressione, voce: indefinite. Né gentile, né scortese: ma assolutamente indecifrabile. Lontana anni luce dal Qui ed Ora. Assente, in un deserto di merci e servizi. Una figura possente, direi, nella purezza del sovrano disinteresse espresso verso qualunque cliente, qualunque richiesta. Sul banco DUE PIZZETTE DUE, in altrettante bustine di plastica chiuse con lo scotch. Accanto, tre cornetti dentro una teca che ha visto tempi migliori. Più in là, una confezione di caramelle. Macchina del caffè, ferma. Non una tazzina in vista. Non un bicchiere. Non un odore o un rumore che non sia di stazione misto bagno.

Il deserto dei Tartari

Sono le 12.55. È la vigilia di un ponte lunghissimo, l’avvio ufficiale della stagione estiva, le mete turistiche regionali, già affollate da italici e stranieri. Altrove, sarebbe una giornata di punta. Dal canto mio, ho davanti a me un viaggio di 8 ore, e niente in borsa. Mi sto guardando intorno da un minuto, abbastanza sconsolata. Davanti a me, il deserto. Alle mie spalle, due vetrine chiuse, con un inutile vetro di protezione, ed un oggetto per scaffale, MODALITÀ Merce in cella di isolamento: ON. Vedo nell'ordine: un dentifricio alla liquirizia. Una ‘nduja incellophanata. Una scatola di qualcosa. Un giochino delle Winx. Tertium, non datur. Sotto, un espositore tiene tre o quattro sacchetti di patatine. Uno per livello.

 

Il miraggio marziano

Le decine di migliaia di passeggeri in transito nel corso dell'anno, capaci nella vita reale di ingenerare un indotto tale da mantenere, a spanne, due famiglie comode, e che si materializzano qui, nella stazione ferroviaria più turisticamente strategica della Calabria sembrano un miraggio marziano. Roba aliena, mai esistita, che non ha mai incrociato, realmente, questo regno dell'assenza.


Pulvis et umbra

Un non luogo: fuori, passeggeri in transito. Dentro, pulvis et umbra. Desertificazione. Mummificazione di un servizio. Tutto appare di tale consumata vecchiezza, da lasciare più stupiti che infastiditi. Ma tant'è. Qui sono. La signora, bar deserto ed io unica avventrice, non da segno alcuno di reazione. Continua a fissare un punto indistinto di fronte a sè. Io, evidentemente, stante ancora nella dimensione "altra", non visibile agli occhi. Entra un signore. Si avvicina alla cassa, ed inizia subito una fitta conversazione in tono confidenziale. Intuisco sia un rappresentante di merci. Difatti, di lì a poco, una scatola di qualcosa passa di mano, senza che il dialogo si interrompa, e senza che io, ovviamente, venga presa nella benché minima considerazione.

 

Dialogo tra la Natura ed un Islandese

Constatata la permanenza della mia invisibilità, cerco di attirare l'attenzione con un richiamo sonoro. «Scusi, signora»... La Pizia si gira, impercettibilmente. Ma non un muscolo muove quel volto. Non un suono esce da quella sfinge dolorosa. «Non una parola tradì i miei pensieri», avrebbe detto qualcuno. «SCUSI SIGNORA – ripeto, a voce leggeremente più alta, per farmi coraggio-. Non ha altro, da mangiare?» Silenzio. Immobilità. Assenza. Solo 50 anni di frequentazioni calabresi, fanno sì che io riesca ad intuire quell'impercettibile movimento di collo-testa-mento verso l'alto, decifrandolo come un NO. «Ma...neanche di confezionato? » insisto, più per curiosità di reazione che per bisogno... Sono affascinata dalla maschera apotropaica che ho di fronte, che in quel momento sembra voler esprimere duemila anni di ingiustizia sociale, capace di far sentire qualsiasi altra persona meno avvezza a questo Sud poco meno che una carnefice. La risposta è un flebile lamento. Un sacrificio a Dio. Una sofferenza espressa con rassegnazione- «I patatini...» («le patatine», riferite al sacchetto di chips alle mie spalle).

 

Signore, allontana da me questo calice

Ora. Qualsiasi altra espressione mi avrebbe fatto innervosire, visto l'andazzo. Ma l'umanità dolente della nostra Signora delle Patatine, la sofferenza viva dell'espressione da patibolo, manifesto vivente della sorte ria di chi è costretto a subire ogni giorno l'onta di doversi relazionare col prossimo, che Tantalo in confronto scansati, beh: meravigliosa coerenza! Un solo messaggio emana, potente, da questa donna, in questo bar ai confini della galassia "Qualità e servizio". Un'unica, titanica domanda. Perché? Perché a me?


Epilogo

Mestamente, timidamente, e sentendomi anche un po' in colpa, strappo le patatine alla loro solitudine. Le prendo, le poso sul banco, metto il denaro accanto al pacchetto. Noto che la Mater dolorosa, dal momento del mio ingresso, ormai 5 minuti fa, non si è minimamente spostata dal suo centro di gravità permanente, all'angolo interno del bancone. Lo fa, lentamente, solo al mio posare il denaro sul banco. Prende le monete. Le mette in cassa. Va a ricollocarsi esattamente dov'era prima: lo sguardo, fisso sullo stesso punto. È una sfinge. Il silenzio è tombale. Mi fermo anche io. La guardo. Passano altri secondi interminabili. E niente. Voglio vedere se riesco a farla uscire dalla trance. E poi, alla fine, il miracolo. L'occhio prende vita. Il volto si anima, di espressione indecifrabile, ma molto, molto simile alla meraviglia. Infine, umano, un flebile: «vuole....vuole lo scontrino?». «Lei.. lei che dice?», rispondo…In quel momento entra un secondo avventore. E come colta da improvvisa vitalità, la nostra eroina gli rivolge la parola per prima. «Un attimo... - esita -. Che qui LA SIGNORA vuole lo scontrino, vuole!». Beh, che dire? Ho vinto. Ma è stata una vittoria di Pirro. L’ho fatto solo per le decine di migliaia di passeggeri destinati a transitare da qui, ogni anno. «Il popolo ha fame? Dategli le brioche!»