Scendere negli abissi marini, calandosi dall’alto su un relitto che giace sul fondale e si manifesta man mano che la profondità si avvicina, crea un senso di vertigine. Anche se in realtà i piedi sono ben piantati a terra e non c’è un solo goccio d’acqua tutto intorno. Potere della tecnologia e delle capacità di un gruppo di studiosi che è riuscito a ricreare il mare e le emozioni che porta con sé nel chiuso di una stanza. Con il visore 3D calato sugli occhi si ha la sensazione di essere davvero altrove, tra i resti di una vecchia nave che riposa custodita dalle acque. Invece siamo all’Università della Calabria, agli ultimi cubi accessibili dal ponte carrabile, dove ha sede il Dimeg, Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica e gestionale. In uno dei laboratori del numero 45 lavora il gruppo di ricerca che sta sviluppando il progetto Creamare. A coordinarlo è il professor Fabio Bruno, che nei suoi studi ha riversato tutto l’amore per quell’elemento che ha accompagnato la sua crescita. «Sono di Paola, quindi il mare è sempre stato una parte di me».

Natura e archeologia si nutrono l’una dell’altra in questo lavoro finanziato nell’ambito del programma comunitario Creative Europe e coordinato dalla 3D Research, spin off dell’Unical. Un progetto che coinvolge 5 nazioni e 7 partner. «Cerchiamo di far conoscere i tesori sia naturalistici che culturali dei fondali – spiega il docente –. Sono due aspetti che vivono in simbiosi, quando visitiamo i siti sommersi troviamo sì relitti e antiche città ma questi sono colonizzati dall’ambiente e dall’ecosistema marino». Delle «capsule del tempo», così le definisce il professor Bruno con un’espressione romantica, all’interno delle quali è racchiuso un pezzo di storia del mondo.

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Come nasce l’idea?
«All’Unical ci occupiamo tantissimo di mare e da tanti punti di vista: da quello dell’archeologia subacquea, della biologia marina, degli ecosistemi, della protezione delle coste. Siamo impregnati di questa sensibilità che ci porta a sviluppare nuove tecnologie per proteggere il mare ma anche, come in questo caso, per trovare strumenti utili a formare al rispetto dell’ambiente. Da questo nasce l’idea di realizzare i serious game, giochi educativi rivolti soprattutto al pubblico più giovane».

Il progetto prevede infatti lo sviluppo di un videogioco. Dove e quando sarà fruibile e soprattutto com’è fatto?
«Sarà rilasciato alla fine del 2024 per i computer e permetterà di visitare 9 diversi siti archeologici sparsi per tutto il Mediterraneo, dall’Egitto fino alla Spagna. I siti sono stati selezionati tramite un bando in cui abbiamo chiesto alle istituzioni culturali di aderire al nostro progetto dandoci la possibilità di digitalizzare e integrare nel nostro gioco i tesori sommersi. Hanno risposto tantissime nazioni e poi abbiamo fatto la selezione. Da lì è partita l’attività di digitalizzazione che è stata anche di formazione, abbiamo cioè affiancato gli archeologi nel digitalizzare questi siti in modo tale che da un lato loro hanno acquisito o affinato queste capacità, dall’altro abbiamo creato i nostri modelli 3D».

Quali sono stati i criteri alla base della selezione?
«È stato difficile scegliere perché volevamo dei siti che avessero una grande valenza culturale ma che fossero anche affascinanti per il pubblico perché un videogioco, anche se educativo, deve essere appassionante. Abbiamo selezionato in modo tale da avere un’ampia varietà di siti: si va dal faro di Alessandria d’Egitto all’antica Cesarea marittima, città romana in Israele, fino ad arrivare a relitti della Seconda guerra mondiale o a navi veneziane e imbarcazioni dell’inizio del XX secolo. Abbiamo voluto coprire un ampio spettro proprio per dare l’idea di quanto sia valido il patrimonio culturale subacqueo».

Lavorate solo in laboratorio o anche sul campo?
«Lavoriamo moltissimo anche sul campo perché oltre a sviluppare queste tecnologie le testiamo e poi le applichiamo. Lavoriamo con sub fino a profondità accessibili, per profondità superiori e avere tempi più lunghi utilizziamo invece dei robot sviluppati dal gruppo di ricerca del Dimeg, che si occupa proprio di creare delle macchine in grado di scendere nelle profondità marine ed eseguire scansioni tridimensionali del fondale. Ma collaboriamo anche con biologi e geofisici».

Il gruppo di lavoro quante persone vede impegnate?
«Come 3D Research abbiamo 20 dipendenti, quasi tutti under 40, che sono un mix di informatici, ingegneri, grafici, ma ci sono anche una storica dell’arte e un direttore artistico che è un’attrice scenografa. Il gruppo del Dipartimento è invece formato da dieci persone, sempre molto giovani, per lo più ingegneri meccanici che lavorano sulla parte di robotica».

Quando avete iniziato a lavorare a questo progetto?
«È partito a marzo dello scorso anno. La durata complessiva è di tre anni, un tempo utile non solo per sviluppare il videogioco ma anche per selezionare i siti. Inoltre abbiamo fatto una call per creativi aperta a tutta Europa e abbiamo portato qui a Cosenza in una residenza per creativi sei tra modellatori 3D, grafici e sound designer che si sono uniti alla nostra causa. Perché il progetto cerca anche di mettere a punto un metodo nuovo basato sulla partecipazione, incrociando la domanda delle istituzioni culturali di applicazioni che riescano a raggiungere il pubblico – e siano quanto più possibile coinvolgenti e allo stesso tempo educativi – e l’offerta di tecnologia e competenze degli esperti per creare dei prodotti sì divertenti ma anche culturalmente e scientificamente validi».

Professore, da qui al 2025 mi sembra già abbastanza impegnato ma glielo chiedo lo stesso: progetti per il futuro?
«Ce ne sono tanti in realtà. Alcuni sono partiti da poco, per altri siamo in attesa di risultati. Tra quelli avviati di recente c’è “Art for sea”: anche qui c’è in mezzo il mare perché la passione è il filo conduttore di tanti nostri progetti. È un programma di residenze artistiche localizzate in tre isole del Mediterraneo – Ustica, Alonissos in Grecia e Gozo a Malta – la cui call si è chiusa ultimamente: abbiamo raccolto 256 domande da artisti di tutto il mondo, dall’Australia fino agli Stati Uniti, ne abbiamo selezionato 24 che realizzeranno delle opere in parte digitali in parte fisiche che saranno installate su queste tre isole per creare una rete di “fari della consapevolezza ambientale”, come li abbiamo chiamati, cioè opere d’arte che cercano di parlare al pubblico e comunicare il messaggio che bisogna intervenire oggi per proteggere il mare e conservare l’ambiente».