La storia del campo di Ferramonti di Tarsia sempre più patrimonio conosciuto e condiviso.  Attraverso 14 pannelli, documenti e fotografie si dipana a Milano il racconto della vita quotidiana nel campo di internamento fascista calabrese allestito a Ferramonti, nel cosentino.

“Ferramonti: una storia parallela”, la mostra itinerante e curata da Laura Vergallo Levi e Paolo Guido Basso, è al centro del percorso educativo in atto a Milano, con tappe al Liceo Parini e alle Scuole Faes. Qui la mostra resta visitabile gratuitamente fino a domani, 28 gennaio. Un percorso arricchito dalla testimonianza di Ruth Foa, ex internata a Ferramonti, avviato al Teatro Menotti di Milano, con l’inaugurazione nel segno di un originale racconto musicale.

Un’iniziativa che rinsalda il legame tra Ferramonti di Tarsia e Milano, dove nella sinagoga Beth Shlomo di corso Lodi sono custoditi gli arredi della sinagoga del campo calabrese.

La storia del più grande campo di internamento in Italia

Il campo di internamento di Ferramonti, di Tarsia, unico in Calabria e il più grande tra gli oltre 50 allestiti su disposizione del regime di Mussolini, era certamente un luogo di prigionia concepito e realizzato per internare uomini, donne e bambini di origine ebraica e non solo. Circondato dal filo spinato e sottoposto a controllo militare, nonostante si patissero al suo interno freddo e malattie, il campo riservò alle persone internate condizioni di vita che mai raggiunsero gli estremi di disumanità registrati nei campi nazisti di sterminio.

Il campo sorgeva vicino alla vecchia stazione ferroviaria della linea Cosenza – Sibari dove sostavano i convogli, nella valle del fiume Crati. Anche in questo caso la presenza di un nodo ferroviario fu condizione privilegiata per la scelta del luogo dove far sorgere il campo, al fine di agevolare l’arrivo di grandi gruppi di persone da internare.

Il campo di Ferramonti entrò in funzione nel giugno del 1940. Costituito da 92 baracche su una distesa di 16 ettari, privo di camere a gas, fu il primo campo ad essere liberato dagli Alleati, il 14 settembre 1943, e l’ultimo ad essere chiuso l’11 dicembre 1945. Molti, non avendo dove andare, restarono lì per qualche tempo, anche dopo la liberazione.

Le leggi per la difesa della razza, emanate dal regime fascista nel 1938, prima dell’inizio della guerra, restarono in vigore fino al 1944 e vennero pienamente applicate con arresti in tutta Italia.

Nel campo di sterminio di Auschwitz I, nella città polacca di Oswiecim, oggi museo statale e dal 1979 patrimonio Unesco, una cartina fotografa la provenienza dei convogli verso le camere a gas. C’è anche l’Italia con le sue città di partenza Fossoli, Bolzano, Verona, Trieste, Roma. Ci sono anche i dati con il numero di ebrei deportati all’inferno, partiti da diversi paesi europei: Ungheria (430 mila ebrei); Polonia (300 mila); Francia (69 mila); Olanda (60 mila); Grecia (55 mila); Boemia e Moravia (46 mila); Slovacchia (27 mila); Belgio (25 mila); Austria (23 mila); Yugoslavia (10 mila); Italia (7mila e 500); Norvegia (Seicento novanta).

Le premesse e, per certi aspetti, lo svolgimento del progetto di internamento, anche in Calabria non erano più confortanti che in altri luoghi d’Italia e d’Europa. La storia qui ha però riservato degli epiloghi inattesi. Diversi e più umani.

Anche una storia di umanità

Nei meandri bui del massacro di sei milioni di ebrei, concepito e perpetrato dalla Germania Nazista di Hitler, in Calabria, in fondo a quell’Italia Fascista delle leggi razziali è possibile scorgere una luce.

Quella luce ha il volto del maresciallo di Reggio, Gaetano Marrari, nel 1940 nominato comandante del Corpo di Pubblica Sicurezza del campo di internamento di Ferramonti. In quel campo, costruito per recludere oltre due mila persone, ebrei e cristiani, italiani e stranieri, antifascisti ed oppositori politici comunisti, greci, slavi, apolidi, omosessuali, dove si entrava sradicati dalla propria esistenza, spogliati di tutto e privati di ogni bene compresa la libertà, fu sorprendentemente possibile sopravvivere. Nessuno fu deportato o ucciso. Quella deriva a Ferramonti di Tarsia non fu mai raggiunta, arginata da umanità e coraggio.

Una storia tenuta viva fino a ieri dalla figlia del comandante, Maria Cristina Marrari. Da giovanissima con la famiglia aveva vissuto all’interno del campo ed è stata testimone instancabile fino alla sua morte avvenuta nel 2019. Segue le sue orme la nipote Nunzia Rita Rizzi.

Reggio, il ricordo del comandante Marrari del campo di Ferramonti

Una storia familiare

«Il ricordo di mio nonno è sempre vivo. Un uomo molto dolce, pacato e affettuoso. Anche un tipo riservato e discreto. Ne abbiamo conosciuto la grandezza e l’umanità, manifestate in quel periodo buio della nostra storia, grazie alle lettere dei tanti che di quella benevolenza furono destinatari. Era un uomo molto riservato che mai si sarebbe gloriato di quanto aveva fatto. Per il semplice fatto che tutto era avvenuto con naturalezza. Era quanto andava fatto. Quanto era giusto fare. Una normalità che, tuttavia, in quel momento aveva il profumo del coraggio». Così Nunzia Rita Rizzi, richiamando alla memoria i racconti di sua madre Maria Cristina.

A Ferramonti, dunque, l'uomo seppe restare tale e distinguersi dal servo abbrutito di un'ideologia delirante, di un progetto indegno che si stava consumando impunemente durante la Seconda guerra mondiale. Ci sono, così, storie come questa di Ferramonti di Tarsia in Calabria, che ancora oggi continuano a dire qualcosa al mondo e a testimoniare la speranza, anche in un orrore senza fine come la Shoah.

La prima pubblicazione su Ferramonti

«Brenner editore fu il primo in Italia a pubblicare un volume su Ferramonti di Tarsia». È quanto ha raccontato Walter Brenner, figlio dell’editore austriaco Gustav. Internato a Ferramonti, poi rimase a Cosenza per amore verso la madre Emilia Iaconianni, originaria di Roggiano Gravina, che dopo la liberazione del campo di Ferramonti di Tarsia, sposò.

«Del più grande campo di internamento fascista non esisteva che qualche cenno. Era una storia di cui nessuno parlava e di cui nessuno aveva ancora scritto. Così nel 1980 pubblicai il volume del professore Franco Folino dal titolo provocatorio “Ferramonti Un lager di Mussolini, gli internati durante la guerra”.
Ferramonti non fu un lager ma quel titolo ebbe lo scopo scuotere le coscienze e squarciare il velo di oblio che avvolgeva questa storia come la storia delle leggi razziali in Italia. Una dimenticanza volontaria, perché nulla si dimentica per caso, rispetto alla quale sentivo e sento ancora l’urgenza di rispondere con la parola e con il racconto di quello che è stato».

«Mio padre non ne parlava. Voleva proteggere me e mia sorella Pina. Ma io volevo sapere e quando ho capito ho iniziato a testimoniarlo. Continuo ancora a farlo. La persecuzione, le privazioni, lo sradicamento, gli stenti, le malattie. Poi ancor la paura e la detenzione dentro un campo di internamento. Anche se resa umana e tollerabile dal comandante di origini reggine Gaetano Marrari e dal direttore Paolo Salvatore e dalla meravigliosa solidarietà della comunità cosentina, essa restò, con le altre, un’esperienza dolorosa. Un carico di sofferenza che adesso abbiamo noi la responsabilità di custodire di tramandare, di non sottacere più. Abbiamo questo dovere in un Paese che ha tenuto nascoste troppo a lungo le persecuzioni di cui si è macchiato», ha sottolineato Walter Brenner.

La giornata della Memoria

Il 27 gennaio 1945, le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. L'Italia nel 2000 ha istituito in questa data la Giornata della Memoria. È giusto commemorare le vittime ma è altrettanto giusto conoscere e riconoscere, al di là facili autoassoluzioni, il contributo reso a quella persecuzione alla quale, anche dal nostro Paese attraverso le sue leggi razziali.

Quella scelta, cui si arrivò in Italia cinque anni prima della risoluzione delle Nazioni Unite del 2005, avvenne su proposta dell’intellettuale e giornalista di origini ebraiche e deputato del Pds, Furio Colombo, scomparso appena due settimane fa.