Costruito con botti legate tra loro e terra o scavato sotto la “sella” tra Cannitello e Ganzirri, “arrotolato” come un grosso disco volante tra le due sponde o steso lungo due, tre o cinque campate. Non si contano i progetti relativi al miraggio dell’attraversamento fisso dello Stretto ideati e presentati nella speranza del canale giusto. E poi ipotesi di finanziamento con i risparmi degli americani, studi di progettazioni internazionali in competizione tra loro e campagne stampa (a favore e contro) accanite, in un crescendo di ipotesi fantasiose. Alcune di quelle storie sono state raccontate da Aurelio Angelini, professore di sociologia dell’ambiente e del territorio all’università di Palermo, nel suo libro “Il mitico ponte sullo Stretto di Messina”. 

Il primo a parlare di un fantomatico attraversamento stabile dello Stretto è Strabone di Cappadocia. È il geografo e storico della Grecia antica a raccontare di come, nel 250 avanti Cristo, il console romano Lucio Cecilio Metello «radunate un gran numero di botti vuote le ha fatte disporre in linea sul mare legate a due a due in maniera che non potessero toccarsi o urtarsi. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte di terra e da altre materie». Il progetto, racconta Strabone, si era reso necessario per fare attraversare lo Stretto a 140 elefanti che le legioni romane avevano sottratto ad Asdrubale nella battaglia di Palermo.

La spinta unitaria

Escluso il romantico racconto dell’antichità e qualche stravagante ipotesi formulata durante il regno dei Borboni, di attraversamento fisso tra la Sicilia e il continente si torna a parlare durante il risorgimento. Risale al 1866 la relazione tecnica di fattibilità che il “costruttore di strade ferrate e ponti” Alfredo Cottrau consegnò all’allora ministro dei lavori pubblici Jacini. Ed era stato lo stesso ingegnere a porre un freno ai progetti, annotando l’impossibilità di costruire tra le due sponde «a meno di spese colossali e favolose». Quattro anni dopo però, arriva il primo progetto basato sull’idea di un tunnel sottomarino tra le due sponde dello Stretto. Siamo nel 1870 e l’ingegnere torinese Carlo Navone presenta alla Camera un progetto per una galleria lunga 4 chilometri tra Grotte e Asarello.

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Scavata 33 metri sotto il fondo del mare ad una profondità massima di 170 metri, prevedeva un sistema a “montagne russe”, con i treni che superavano la salita del tratto terminale del tunnel sfruttando la velocità raggiunta nella prima parte. Un’idea da libro di Verne che sarebbe costata 35 milioni dell’epoca e lavori per quattro anni. Risale invece al 1883 l’ipotesi avanzata da un gruppo di ingegneri piemontesi, per un ponte sospeso con cinque grandi campate che avrebbero dovuto sostenere due diverse carreggiate: una per il traffico ferroviario, l’altra per quello veicolare. Il progetto fu però bollato come «troppo mastodontico e finanziariamente poco remunerativo».

Ma di idee bizzarre, la storia del mancato ponte è piena. Alcune, addirittura completamente false. Come nel 1948 quando alcuni giornali dell’Isola diedero grande risalto alla notizia che un fantomatico gruppo di italo americani, attraverso l’altrettanta fantomatica “Ponti internazionali di San Francisco” aveva progettato e finanziato l’opera da realizzare in brevissimo tempo: sei chilometri di lunghezza tra Punta Faro e Punta Pezzo. Ci vollero due anni prima che la Camera di commercio di Messina, dopo avere avanzato richieste formali di informazioni all’Ambasciata italiana a Washington, alla camera di commercio italo americana e al ministero degli Esteri alla Farnesina, informò la popolazione che si trattava di una (ennesima) panzana.

La rotatoria e l’istmo

Tra archi mastodontici e tunnel chilometrici immaginati in uno dei posti geologicamente più instabili del pianeta e attraversato da tremende correnti marine, un posto di rilievo in questa carrellata di ipotesi fantasiose lo meritano il progetto di chi voleva “strozzare” lo Stretto attraverso una montagna artificiale, e quello che aveva immaginato tra Reggio e Messina una specie di rotatoria girevole che avrebbe dovuto assecondare il vento. E se della seconda chimera, resta un modellino futuristico presentato al Maxxi di Roma una manciata di anni fa, l’incubo istmo ebbe radici più profonde.

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Fu l’ingegnere Nino Del Bosco, nel 1953 a presentare un progetto faraonico che intendeva collegare Sicilia e Calabria con un istmo artificiale lungo 3,3 chilometri e con un canale navigabile largo 75 metri per il passaggio delle navi. L’opera aveva previsto il riversamento in mare di circa 70 milioni di metri cubi di pietrame estratto tra Ganzirri, Scilla e Palmi e prevedeva sei anni di lavoro per oltre 10mila operai. Le critiche furono talmente tante che di quel progetto non se ne parlò mai più.

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