Nel Piano del Parco del Pollino, all’inizio del capitolo dedicato, la centrale del Mercure viene definita «un nodo spinoso». E tale si è conservato nel corso degli anni. Un quarto di secolo, se consideriamo che la prima proposta di riconversione a biomasse dell’impianto (prima alimentato a lignite, poi a olio combustibile) risale al 2000. A presentarla Enel, che ne ha avuto la gestione fino al 2019, anno del passaggio a Sorgenia. L’autorizzazione dell’Ente Parco arriva nel 2002. Ed è da allora che la guerra ha inizio. Da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari a quelle ciminiere nel cuore di un Parco nazionale.

Un fuoco apparentemente estinto nel 2016, quando dopo una serie di false partenze e stop scanditi da ricorsi incrociati la centrale entra in attività grazie all’autorizzazione definitiva arrivata nel 2015. Ma in realtà la fiammella dello scontro continua ad ardere sotto cenere, alimentata da chi non ha mai accettato di rassegnarsi di fronte a quella che ritiene un’ingiustizia.

Fa capolino poi con l’approvazione, a luglio 2023, del Piano del Parco del Pollino da parte della Giunta Occhiuto. «Senza deroghe», sottolinea il presidente nel video in cui dà l’annuncio. Che vuol dire? Che la centrale, che finora ha operato con una potenza netta di 35 megawatt termici, per proseguire nelle sue attività deve ridurre a 10 megawatt termici, che è la potenza massima indicata proprio nel Piano del Parco.

Trascorre poco più di un anno e la fiammella torna ad ardere sotto cenere, poi un emendamento inserito nella legge Omnibus approvata lo scorso novembre in Consiglio regionale innesca l’incendio.

La chiamano “norma Laghi” perché a presentarla è il consigliere del gruppo De Magistris Presidente Ferdinando Laghi, da sempre in prima linea contro la centrale del Mercure. Ma in realtà non si è inventato niente. Eppure finisce proprio al centro dell’incendio per aver riportato nero su bianco quanto già deciso un anno e mezzo prima dalla Giunta regionale, che a sua volta non ha fatto altro che recepire le indicazioni riportate nel documento principale dell’Ente Parco da oltre 13 anni.

La storia del Piano del Parco del Pollino

Il Parco nazionale del Pollino viene istituito con la legge n. 67 dell’11 marzo 1988. Comprende in tutto 56 comuni, di cui 32 in Calabria e i restanti 24 in Basilicata. La procedura per la redazione del Piano viene aperta solo nel 1999. La proposta di Piano invece il 6 maggio 2011 ottiene il parere favorevole della Comunità del Parco e pochi giorni dopo, il 17 maggio 2011, viene approvata dal Consiglio direttivo del Parco all’epoca guidato da Domenico Pappaterra. La Regione Calabria – presidente Mario Oliverio – lo adotta con delibera 629 del 20 dicembre 2019, «fase propedeutica», si legge, «ai fini della successiva approvazione dello stesso».

Nell’estate del 2023 avviene poi quello che il governatore Occhiuto definisce un «passo di civiltà per la Calabria». Dalla sua pagina Facebook da cui è solito fare gli annunci, dà la notizia che alcuni aspettavano e altri non avrebbero mai voluto avere: «Non ci saranno mai più centrali a biomasse nel Parco nazionale del Pollino. Abbiamo approvato in Giunta il Piano del Parco, ma senza deroghe. Cosa significa? Negli anni precedenti ogni volta che il Piano doveva essere approvato – nonostante in un Parco nazionale non dovrebbe esserci una centrale a biomasse – veniva data una deroga e così facendo si permetteva che l’attività della centrale proseguisse. Da quest’anno no».

Il resto è storia di questi giorni. Ma in realtà storia di ieri, dato che le contestatissime prescrizioni della cosiddetta “norma Laghi” sono dettagliatamente riportate e argomentate da più di 13 anni, come detto, proprio nel Piano del Parco.

«Impossibile reperire biomasse in un raggio ragionevole»

Tra le sue tante pagine, il Piano reca un paragrafo dedicato alla centrale del Mercure. Nelle cui prime righe si legge quanto segue: «Allo stato attuale, il progetto di riattivazione in esercizio con impiego di biomasse quale combustibile, appare improponibile, per i motivi di seguito riportati: scarsa efficienza dell’impianto con rendimenti di appena il 26% che sono alquanto modesti in relazione ai più recenti criteri di efficienza energetica; eccessive dimensioni dell’impianto (41 mw elettrici) che va in contrasto con un modello di filiera biomassa-energia sostenibile secondo quanto auspicato dalle leggi in materia». Ancora: «In effetti appare evidente l’impossibilità di reperire il combustibile (le biomasse) in un raggio ragionevole dalla centrale».

Il Piano, che risulta revisionato a giugno 2022, riporta poi una serie di calcoli matematici a supporto di quest’ultima affermazione, partendo da un dato: per ogni megawatt di potenza servono all’incirca 8mila tonnellate di materiale all’anno. Che moltiplicate per 35 mw (la potenza netta attuale della centrale del Mercure) fanno 280mila tonnellate.

Ebbene, neanche sommando il combustibile disponibile derivante da biomasse legnose e provenienti dalle attività agricole (come la sansa) e dal residuo secco dei rifiuti si otterrebbe il quantitativo necessario al funzionamento dell’impianto, ma poco più del 50%. «Da tali analisi di semplice dimensionamento di massima si evince che il funzionamento della centrale – si legge – comporterebbe uno sfruttamento intensivo della risorsa legnosa, delle biomasse agricole, nonché del residuo secco dei rifiuti (ottenendo circa la metà della biomassa dichiarata necessaria al funzionamento della centrale); pertanto la riattivazione della centrale non può che passare per una “importazione” della biomassa con tutte le conseguenze sui trasporti e sull’inquinamento che questo comporta».

«Biomasse sì ma entro i 50 km»

Si spiega più avanti che la realizzazione in un parco di un impianto come quello del Mercure è «comprensibile» se abbinato allo sfruttamento di risorse locali perché l’impatto negativo della produzione si riequilibrerebbe «con lo smaltimento di scarti e la ridotta incidenza della spesa energetica dovuta al trasporto». Ma se la dimensione dell’impianto eccede la capacità di approvvigionamento interna al territorio tale equilibrio viene meno a vantaggio degli impatti negativi.

«A rafforzare la suddetta restrizione alla potenza massima – si legge ancora nel documento – concorrono considerazioni sulla necessità di combustibili per il trasporto, che crescono quando il bacino di raccolta si amplia. Oltre all’evidente riduzione del vantaggio energetico dato dalle biomasse, vi è la penalizzazione delle emissioni inquinanti rilasciate dagli autocarri. Diversi studi (Börjesson et al, 1996), (Fiala et al, 1997) concludono che la distanza ottima del viaggio della biomassa è inferiore ai 50 km. Sembra ragionevole quindi, tenendo conto sia del pregio del territorio di un parco naturale, sia della tortuosità delle strade che rendono il percorso chilometrico più lungo a parità di raggio del bacino, di circoscrivere il bacino di raccolta entro un raggio massimo proprio di 50 km».

Ancora più chiaramente, nell’allegato 4 dedicato alle politiche energetiche, si legge: «Nelle sottozone D4 di sviluppo industriale o artigianale o nei centri urbani, al di fuori del perimetro dei centri storici così come delimitati dagli strumenti urbanistici comunali, sono consentiti previo Nulla Osta, impianti del tipo a generazione elettrica e termica o cogenerazione da biomasse secche. La potenza termica installata in tale tipologia di impianti non potrà eccedere i 10 Mwt termici. Al fine di potenziare le attività produttive agricole e forestali locali e contenere le emissioni e gli impatti dovuti soprattutto alle attività di trasporto e stoccaggio della materia prima, sono consentiti esclusivamente gli impianti con biomasse provenienti da attività agricole o forestali condotte entro un raggio di 50 km dall’impianto (filiera corta del Parco)».

Un nodo spinoso ma nient’affatto nuovo

Il nodo, insomma, è spinoso davvero, considerato anche che il Piano del Parco del Pollino nel corso degli anni è passato di mano in mano. E tra le tante mani ci sono anche quelle di chi sembra scoprire tutto oggi e urla allo scandalo di una “norma” che, in realtà, era lì sotto gli occhi di tutti da più di 13 anni, in attesa che qualcuno la facesse rispettare.