«Ho inteso ripercorrere tutti i principali avvenimenti, dalla notte dei tempi e fino al 7 ottobre 2023. Avvenimenti che hanno caratterizzato il conflitto israelo-palestinese. Così Paolo Mattia nel presentare il suo interessante libro: “Storia di una terra contesa”, edito da Passaggio al Bosco.
Paolo Mattia, dalla Calabria al Medioriente, da Israele alla Palestina e alla Striscia di Gaza. Paolo legge con molta cura e attenzione una guerra terribile che sta provocando paura e orrore nel mondo.

Ma vediamo prima di tutto, chi è Mattia.
«Sin da piccolo la mia vera passione è sempre stata la politica che, ovviamente, tante volte si affaccia e si mischia alla geopolitica; ho la fortuna di essere amministratore locale ed ho sempre ritenuto che il dovere di chi amministra una comunità sia quello di contribuire ad alzare il livello del dibattito, non fermandosi solamente a discutere dell’amministrazione locale ma parlando anche di temi più vasti».

Torniamo a libro e al conflitto israelo - palestinese.
«La volontà di fermarmi al 7 ottobre è voluta per due motivazioni: la prima per cercare di sfatare la narrazione di comodo che tutto sia iniziato con il tragico assalto palestinese in territorio israeliano dello scorso autunno. La seconda motivazione è perché per raccontare con dovizia di particolari un determinato avvenimento importante come l’attuale conflitto, è necessario che passi prima molto tempo, e che gli esperti, e non gli appassionati come me, possano analizzare tutti gli aspetti».

Il libro è stato pubblicato l’8 dicembre 2024, ed è molto di più di una semplice ricostruzione storica del conflitto. Vediamo come inizia il suo interessamento.
«Nel 2007 all'età di 20 anni, conobbi a Londra due ragazzi palestinesi fuggiti dalla Cisgiordania, perché un giorno alle 18,00 si presentò un ufficiale giudiziario israeliano accompagnato dall'esercito che intimò alla famiglia che entro le 9,30 del giorno seguente avrebbero dovuto abbandonare la casa. Questo perché il terreno dove sorgeva sarebbe stato espropriato dallo Stato ebraico per fare posto ad un giardino della Torah. Dopo un primo momento presso il campo profughi di Jabalia (che oggi conta circa 60.000 persone), la famiglia si divise e i due fratelli, grazie ad un tramite, decisero di andare a cercare fortuna a Londra aprendo un minimarket. Loro mi dissero, con una naturalezza incredibile ed inquietante, che metà dei loro proventi li destinavano al mantenimento delle mogli e dei figli, mentre l'altra metà la destinavano ad un gruppo di autodifesa armato che attaccava i coloni ebraici presenti in quella che le Nazioni Unite identificano in Palestina».

All’epoca ne sei rimasto particolarmente colpito?
«Molto. La naturalezza con la quale mi dissero queste cose mi sconvolse e mi portò ad approfondire la delicatissima tematica di questa terra contesa da due popoli».

Per trattare un tema così delicato, in una regione in crescente ebollizione e con una storia secolare di conflitti, occorre avere un’idea delle origini e di come si possa trovare una soluzione.
«La mia idea è che, per evitare che riaccadano situazioni analoghe al 7 ottobre ed alla risposta israeliana, non ci sia alternativa alla costituzione dei due Stati ma, al contempo, bisogna essere obiettivi e ammettere, a noi stessi in primis, che è una situazione irrealizzabile perché, oramai, geograficamente la Palestina non esiste più, ma coesistono nella stessa regione tante città palestinesi scollegate tra loro. Diciamo che si potrebbe parificare la loro situazione a quella dei nativi americani nelle riserve».

Dagli accordi di Pace di Camp David del 1978 (che avevano stabilito che quelli che vivevano nei territori occupati da Israele sulla riva occidentale del fiume Giordano e sulla striscia di Gaza, avrebbero dovuto godere dell'autonomia e ottenere un proprio governo) fino all’immane tragedia dei giorni nostri. La strada sembra portare sempre più verso una catastrofe umanitaria.
«La situazione, a parer mio, purtroppo è irrecuperabile. Tutte le guerre hanno delle ripercussioni, ma fin quando Israele sarà rappresentata da Ministri che tengono la foto di un killer che uccise decine di palestinesi all’interno di una Moschea ad Hebron, e fin quando alcune comunità palestinesi continueranno ad essere guidate da gruppi fondamentalisti, la pace sarà irrealizzabile. Entrambi i popoli dovrebbero riprendere la strada del dialogo, riconoscersi vicendevolmente secondo i confini dettati dall’Onu dopo la guerra del 1967, impegnarsi a non rivendicare la terra altrui… ma, purtroppo, stiamo parlando di pura utopia, di un qualcosa di irrealizzabile».

Il 13 agosto 2020 con Trump alla Casa Bianca, Usa, Israele, Emirati Arabi e Bahrain hanno sottoscritto gli “Accordi di Abramo” che citi nel libro. Ma di fatto non portarono ai risultati previsti. Ora occorre capire cosa succederà con il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Due popoli, due Stati è ancora un’opzione praticabile?
«Il secondo Trump, a parer mio, sarà devastante per la soluzione dei due popoli e due Stati; mai nessun governo israeliano in precedenza si era esposto così tanto a favore di un candidato alla presidenza della Casa Bianca; le elezioni di Trump sono state accolte come una manna dal cielo da Israele perché sanno benissimo che, con il Tycoon alla guida della Casa Bianca, Israele, di fatto, avrà sempre più mano libera e più libertà di determinarsi e di “allargarsi”. Trump, purtroppo, non riconoscerà mai lo Stato di Palestina, gli insediamenti in Cisgiordania cresceranno a dismisura in questi 4 anni di mandato e tramonterà definitivamente ogni velleità».

Un capitolo del tuo libro si intitola “Stati Uniti fatevi gli affari vostri”. Il titolo sembra una provocazione. Ma se gli Usa dovessero davvero farsi da parte, davvero sarebbe possibile la pace in Medioriente?
«Il capitolo del libro riguarda l’unico vero attrito bellico che ci fu tra Israele e Stati Uniti quando Israele bombardò una nave militare americana. Ma se dovessimo parlare in astratto, direi assolutamente sí. La forza economica e militare americana è sempre stata determinante ed ha consentito ad Israele di concedersi alcune cose che, altrimenti, sarebbero state impensabili (basti pensare che, mentre tutto il mondo chiede la fine della guerra a Gaza, gli Usa in un anno e due mesi di guerra hanno inviato oltre 18 miliardi di dollari di armamenti, una cifra spaventosa che legittima Israele nella sua politica di continuare questa guerra). Basti pensare che gli USA, la più grande democrazia al mondo, hanno dichiarato che non faranno rispettare il mandato di arresto internazionale nei confronti di Netanyahu emesso dalla Corte Penale Internazionale (alla stregua della Russia che recentemente ha ospitato Assad, il dittatore siriano in fuga sul quale pendeva un analogo mandato di arresto). Questo è sintomatico del rapporto che lega indissolubilmente i due stati, a prescindere dalle posizioni e dai reali obiettivi».

In questo terribile scenario, brilla la totale impotenza dell’Onu.
«L’Onu ha dimostrato il suo essere un gigante con i piedi di argilla; che sa fare benissimo il forte con i deboli ed il debole con i forti. Condannare l’organizzazione terroristica di Hamas è troppo facile e, quasi, scontato ma, ciò che è realmente incredibile, è che se qualsiasi altro stato al mondo avesse ucciso decine di migliaia di bambini, donne ed anziani che non c’entrano nulla con la guerra; se qualsiasi stato avesse condotto l’arresto di 12mila persone per utilizzarli come merce di scambio con altri ostaggi; se qualsiasi stato si fosse macchiato dei crimini contro l’umanità dei quali si sta macchiando Israele da oltre un anno, l’Onu sarebbe giustamente intervenuto “a gamba tesa”.

Purtroppo gli Stati Uniti, tornando anche alla domanda di prima, hanno un peso specifico troppo importante all’interno delle Nazioni Unite e, essendo membri permanenti con potere di veto all’interno del consiglio di sicurezza, condizionano l’agire di tutto il mondo».

Paolo Mattia ha deciso di devolvere gli introiti della vendita del suo libro, a favore di un’associazione umanitaria che si occupa di fornire assistenza alle famiglie palestinesi in difficoltà.