Antica arte

La caccia al pesce spada: a Scilla una tradizione millenaria raccontata da uno degli ultimi pescatori

Tra lo Stretto di Messina e la Costa Viola ogni anno tra maggio e agosto si ripete la magia. Rocco Pontillo: «Svolgo questo lavoro da quando iniziai all’età di 14 anni con mio padre. Oggi lo tramando ai nipoti»

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di Giuseppe Mancini
15 giugno 2024
06:15

La pesca del pesce spada è un'antica tradizione marinara che si ripete da secoli nel mitologico mare tra lo Stretto di Messina e la Costa Viola calabrese.
Quest'arte, a Scilla così come a Bagnara e a Palmi, viene tramandata di generazione in generazione, conservando canti propiziatori, riti scaramantici e rituali. Uno dei più noti è la “Cardata da cruci”, che consiste nell’incidere con una croce la guancia del pesce dopo la cattura, in segno di prosperità e riconoscenza. La pratica è diventata un marchio distintivo degli esemplari catturati in zona. Il pesce spada è una specialità gastronomica del territorio e un simbolo legato alle radici.

Le battute di caccia

Le battute di caccia iniziano i primi di maggio e terminano a fine agosto. Un tempo venivano eseguite con veloci e snelle imbarcazioni chiamate "Luntri", poi sono subentrate le tipiche "Passerelle", le feluche, caratterizzate da un altissimo traliccio di 20-25 metri, dove prendono posto gli avvistatori, i quali avvertono il fiocinatore che si muove su una passerella in ferro che sporge dalla prua per altrettanti 25 metri circa, e tenta di arpionare il velocissimo pesce.
A mantenere in vita l'usanza sono rimasti in pochi. È un lavoro duro che richiede amore per il mare, ore trascorse in barca, sacrificio, ritmi intensi e poco riposo.


Uno degli ultimi eredi di questo mestiere antico e affascinante è Rocco Pontillo, che con la sua famiglia è proprietario di una feluca. Fa parte della vecchia guardia di cacciatori di pesce spada, nei suoi occhi fieri conserva un sapere secolare tramandato da padre in figlio.

Tradizioni di famiglia

Lo abbiamo incontrato nel porticciolo di Scilla all’imbrunire, di rientro da una battuta di caccia. Ci siamo fatti largo tra un folto numero di turisti che scattavano fotografie, e sulla banchina, all’ombra della rupe su cui si erge il Castello Ruffo, gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza con il mare.
«Svolgo questo lavoro da 40 anni, ho iniziato all’età di 14 anni con mio padre. La nostra è una tradizione di famiglia, che oggi portiamo avanti anche con i nipoti – ha spiegato il sessantatreenne Rocco Pontillo, un uomo con il viso bruciato dal sole e la pelle tagliata dal sale -. La giornata lavorativa inizia alle 6:00 del mattino e si rientra per le 19:00, in condizioni meteo favorevoli dura oltre 12 ore.

Il rispetto del mare e della natura

Sono rimaste tre barche a Scilla, una a Bagnara, una a Palmi, dieci a Messina. È una pesca molto selettiva, perché vedi quello che peschi. Non è un mestiere che distrugge il mare. Quest’anno, purtroppo, le previsioni meteo non sono affatto buone. Il tempo influisce molto per questa pesca, infatti siamo usciti alcune volte con il tempo cupo senza prendere niente. Si usano solo gli occhi, senza strumenti elettronici, quindi se non c’è il sole si vede ben poco. Con questa imbarcazione già con mezzo metro di onda non si può pescare, perché va giù il ponte ed è pericoloso».

Rocco fa presente che piccole realtà come la sua sono in sofferenza, il settore è schiacciato da costi, normative e burocrazia.
«Il pescato lo vendiamo a 10/12 euro al chilogrammo, poi i commercianti al banco lo rivendono a 35/40 euro – riferisce Rocco Pontillo-. Ci sono molti costi di combustibile e di contributi per registrare le persone a bordo, pari a 230 euro mensili ciascuno per tre persone. A livello burocratico ogni tre anni un ente certificatore fa controlli per verificare le condizioni della barca e dei motori. E si deve spendere per mettersi in regola. Ci vogliono 150 litri di gasolio al giorno per ogni uscita. Il combustibile agevolato alla piccola pesca è di 0,80 centesimi al litro, ma se tolgono questa agevolazione, addio pesca».

Il marinaio narra di una storia di rispetto per il mare, passione e perseveranza che rischia di morire. La società odierna, spinta da altri valori, fatica a comprendere, e il mestiere è in via di estinzione, con i giovani sempre più in allontanamento.
«È una pesca tradizionale che dovrebbe essere più tutelata in tutti i sensi, iniziando da un porto più attrezzato – evidenzia il pescatore -. I giovani devono avere la passione, ci sono tanti sacrifici da fare. Chi oggi vuole stare tante ore sotto il sole che picchia? Tra qualche anno credo finirà tutto, perché non c'è ricambio generazionale».

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