È il luogo dell’assurdo l’Ariston. Dalla scalinata più monumentale d’Italia sono scese le icone più incisive della storia contemporanea, donne potenti il cui impatto riecheggia da generazioni. Eppure resta kermesse di sessismo e mancata eguaglianza
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Registrava in studio con Shel Shapiro quando da una porta socchiusa irruppe Richie Heaven, incredulo: «Ehi, ma questa è una delle migliori cantanti che abbia mai sentito». La legenda di Woodstock stava lavorando ad un album con Pino Daniele nella sala accanto: da quel momento entrambi iniziarono a recarsi ogni giorno nello studio di fianco per ascoltare dal vivo Mia Martini.
Furono tante le atrocità che Mimì Bertè dovette sopportare in vita, tra queste la mancata collaborazione col cantautore napoletano interrotta dalla feroce gelosia di Ivano Fossati con il quale ai tempi era incastrata in una relazione tossica. Quando il disco con Daniele saltò Mia Martini perse la voce. Due interventi alle corde vocali e un anno di silenzio dopo, a restare senza fiato fu l’Ariston quando di rosa vestita si manifestò intonando “E non finisce mica il cielo”. Il finale perfetto per un’opera di Euripide se consideriamo che a scriverlo fu proprio Fossati. Era il 1982, primo Sanremo per Mimì che reggeva il fardello delle maldicenze e non raggiunse il podio. Tanta drammatica grazia, tuttavia, non potette lasciare indifferenti i critici che per lei istituirono un premio apposito che dal 1996, anno successivo alla sua scomparsa, divenne “Premio Mia Martini”.
Sanremo è un non luogo, un teatro dove commedia e tragedia, rappresentazione e realtà, non solo convivono ma perdono contorni fino a divenire indistinguibili. I miti diventano terreni e gli umani leggenda. Specchio impietoso della società, il festival scandisce le epoche e ne racconta l’avvicendarsi divenendo storia contemporanea, prima che storia della musica e della televisione. Manifesto di costume e rivoluzioni accidentali, prima che costruite dall’empowerment industriale che negli anni ha avvilito la ribellione a prodotto del marketing, prendendo della lotta l’involucro da consumare in salsa democristiana. Fabbrica di scandali, vizi, virtù degli italiani, la settimana della canzone ha inciso capitoli fondamentali della storia della moda del Paese. Corpi e abiti diventati politici. Scampoli di stoffa, pezzi di pelle esposti durante l’ora di cena delle famiglie hanno avuto sui cambiamenti della nazione un impatto più potente dei monologhi precotti - per mettere una pezza sul ruolo di contorno in cui continuano ad essere relegate le donne - serviti in tempi recenti.
È il luogo dell’assurdo il festival in cui da sempre protagoniste sono le contraddizioni. Dalla scalinata più monumentale d’Italia sono scese Mina, Milva, Loredana, Anna Oxa, Giuni Russo, Patty Pravo. Visioni celestiali e demoniache che hanno ispirato autori, direttori creativi, costumisti, donne, uomini influenzando i decenni successivi alla loro esibizione. Icone potenti, streghe brucianti la cui eco risuona da generazioni. Irripetibili. Eppure non esiste un luogo intriso di patriarcato quanto l’Ariston.
Ancora un uomo al timone e le donne – ben cinque –un passo indietro. E non finisce mica il cielo, direbbe Mimì. Eppure anche quest’anno ci toccherà guardarlo da sotto un tetto di cristallo.
Buon Sanremo a tutte.