Un padre e una figlia sembrano camminare sulla stessa riva, invece non è così. Si scoprono distanti, all’improvviso, vivi su versanti opposti. In mezzo a loro scorre un fiume impetuoso che prima sembrava non esistesse. Regina ha solo quindici anni. Sogna la musica, sogna il palcoscenico. Suo padre Luigi è sempre con lei, ha messo da parte i suoi di sogni musicali, per seguirla. Tra i due il legame è stretto, totale. Fino a che accade il destino. Un avvenimento drammatico farà da detonatore per le loro vite.

Regina

“Regina”, opera prima del regista calabrese Alessandro Grande, che vede nel cast Francesco Montanari, Ginevra Francesconi, Max Mazzotta, è in programmazione su Sky Prima Fila e dal 27 maggio debutterà al cinema. È stato l’unico film italiano in concorso all’ultimo Torino Film Festival e, dopo tanta attesa, finalmente conoscerà le luci della sala.

Grande al cinema ci è arrivato senza folgorazioni sulla via di Damasco, il suo è stato un lento approssimarsi, sfiorarsi per poi ritrovarcisi dentro. Ha studiato Letteratura e lì la malìa della commedia all’italiana, del neorealismo, l’ha condotto verso una strada che era già lì, solo andava imboccata. Una strada che si chiama gavetta di cui Alessandro ha percorso ogni tappa: prima i corti più brevi, poi quelli più impegnativi, fino al suo debutto per il grande schermo. In mezzo dieci anni di lavoro. Poi è arrivato il Covid.

La pandemia

«Il mio film ha subito il contraccolpo della pandemia sia nella fase di fine riprese che dopo. Ho finito le ultime scene quando il virus era già tra noi, poco prima della chiusura totale. Ho vissuto i mesi di lock-down con l’inquietudine addosso: avevo un film non finito nel cassetto e il pensiero batteva sempre lì e, intorno, un mondo cambiato in cui combattevamo un nemico che non si vedeva».

Alessandro, hai vissuto un film nel film…

«Se mi avessero detto all’inizio delle riprese: il tuo film non uscirà a causa di una pandemia, gli avrei riso in faccia. Invece è accaduto».

Il conflitto genitori e figli

“Regina” è un ritratto generazionale, dipinge un conflitto tra un padre e una figlia che sembrano uniti ma non lo sono fino in fondo.

«Sono stato sempre legato a tematiche universali viste, però, con un altro occhio. Mi interessava raccontare come una ragazzina vivesse il senso di colpa del padre».

Un padre che, a un certo punto, crede di aver fatto la scelta migliore per sua figlia e invece…

«Non è facile capire, quando accade un avvenimento improvviso che scombina un po’ tutto, cosa fare per proteggere i propri figli. Ho visto film sull’argomento, letto saggi, libri, e quello che cito spesso è proprio “Il complesso di Telemaco” di Recalcati in cui l’autore riflette sulle nuove generazioni che hanno bisogno di un faro, di una guida. Invece capita che la mia generazione, quella dei trentenni e quarantenni, faccia fatica ad assumersi le proprie responsabilità. E come Telemaco aspetta sulle rive del fiume suo padre Ulisse, per riportare l’autorità in casa, lo stesso fa Regina sperando che il padre, da un’esperienza tragica, possa guidarla verso quello che è giusto fare».

I legami e la paura di sbagliare

A volte, forse, è davvero necessario perdersi, spezzare un legame vecchio, per poter ricominciare e ritrovarsi.

«È necessario forse fermarsi, riflettere, spogliarsi. Il padre del mio film non è cattivo o egoista, non sa educare. Ha paura di perdere la figlia ed essendo un uomo solo teme che un incidente possa compromettere il loro rapporto. Ma è una scelta protettiva che li allontanerà sempre di più fino a quando sarà lui stesso a capire che con sua figlia doveva solo parlare».

Genitori non si nasce quasi mai, si diventa faticosamente nel tempo, sbagliando molto lungo il cammino.

«Essere padri vuol dire essere uomini quando bisogna esserlo. Non basta condividere piccole complicità. Quel rapporto tra padre e figlia che si vede all’inizio del film sembra sano ma nasconde una malattia».

Che lavoro hai fatto sulla giovane Ginevra Francesconi che interpreta la protagonista?

«Abbiamo lavorato duramente per un anno, preparando il personaggio e approfondendo il discorso musicale. Regina suona e canta mentre Ginevra non l’aveva mai fatto prima. Ho girato con molti piccoli piani sequenza quindi, in fase di montaggio, non avrei avuto poi la possibilità di scegliere dei pezzi, mi sarei dovuto accontentare dell’ultimo take buono che avevo. Per questo tutto doveva essere perfetto».

La Calabria 

Parlando di location, hai girato in Sila, in varie scene si riconoscono il lago Cecita, il lago Ampollino, il lago Arvo, è una scelta che ha influenzato anche il “colore” della storia?

«Sì, assolutamente. Ho scelto la Sila proprio perché credo si sposi molto bene con il mood del racconto. Volevo intervenire sul paesaggio come se fosse un terzo personaggio in scena. Il meteo del luogo va di pari passo con le sensazioni dei protagonisti. All’inizio del film c’è un sole brillante che scalda Luigi e Regina che scherzano sulla barca e poi, man mano, il clima diventa sempre più freddo e cupo perché i due personaggi principali entrano in conflitto e iniziano a separarsi».

Hai voluto raccontare la tua Calabria attraverso un filtro diverso.

«Mi piace dare la mia impronta, scrivere storie che allontanino la mia terra dai cliché e dagli stereotipi. Ho sempre combattuto contro il pregiudizio ho voluto raccontare un lato bello, affascinante, misterioso della Calabria che c’è, esiste, e che qualcuno ha paragonato al Canada, al Nord Europa. Abbiamo la fortuna di avere un territorio completo, far vedere una cosa che abbiamo e che non tutti conoscono è stata una bella opportunità che non volevo perdere».