La protagonista del film è Elisa Conclite alias Casadilego, già vincitrice di XFactor, qui al sorprendente debutto sul grande schermo in una pellicola ambientata in una Locride dai colori pop
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C’è una tenerezza sottile nei film di Fabio Mollo, entra a lame di luce dai lati, illumina il profilo, fa intuire gli occhi. C’è del disincanto anche, e due gocce di pioggia che sanno di malinconia ma non fanno troppo male. “My Soul summer”, dopo l'esordio nella sezione Alice nella Città alla Festa del Cinema di Roma, da ieri è nei cinema di tutta Italia. Protagonista è Anita che sogna la musica ma ancora non ha scoperto la sua vera voce interiore. Nel suo viaggio nell’estate dei cambiamenti porta con sé un bagaglio pesante, pieno delle aspettative degli altri e della paura di non essere poi così speciale. Sulla strada incontra un maestro, che non si sente tale, sgualcito, caotico, di quelli che ti stropicciano perbene e ti iniettano il coraggio senza volerlo. Tutto porterà a una scelta, a un salto nel vuoto senza rete sotto, di quelli che toccano a chi riesce a volare.
Nel film c’è la Calabria assolata di Locri, dipinta a tinte pop, ci sono le mani da pianista di Casadilego, catapultata dal piccolo schermo di XFactor al grande schermo del cinema, c’è Tommaso Ragno, una voce d’attore che è un’orchestra, e la fotografia di Daniele Ciprì. Dirige la sinfonia Fabio Mollo, qui al suo quarto lungometraggio.
Mollo, ritorno al cinema, ritorno in Calabria.
«Pensi che il film inizialmente doveva essere ambientato a Como».
E poi?
«Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato subito che i luoghi giusti erano quelli calabresi. Ho lanciato la mia proposta, abbiamo fatto i sopralluoghi a Locri e ho capito quanto mi ero sbagliato per anni».
Che intende dire?
«Anche se sono nato a Reggio Calabria non conoscevo la zona della Locride, anzi, le dirò di più, avevo maturato un certo pregiudizio. Invece è stato meraviglioso girare lì. Ora lo posso dire: mi sono innamorato di Locri».
Di cosa aveva paura?
«Leggendo certi racconti di cronaca mi ero costruito un’immagine distorta di quella zona della Calabria. Invece, andare sul posto, parlare con la gente e girare, ha completamente annientato tutte le convinzioni errate che avevo».
“My Soul Summer” è il titolo del film e gioca col termine anima e anche con il termine musicale “soul” che rievoca nomi come Aretha Franklin, Otis Redding.
«Io credo che la musica soul abbia uno stretto legame anche con il nostro di Sud. Poi il viaggio che fa Anita, la protagonista del film, per scoprire sé stessa, volevo fosse in Calabria, la terra dove l’impossibile diventa possibile».
Casadilego è al debutto come attrice, l’abbiamo conosciuta a X-Factor e adesso eccola sul grande schermo. Perché questa scelta?
«Quando ho letto la sceneggiatura ho detto: ok, serve un’attrice di 18 anni che sappia suonare Chopin, cantare e recitare».
Poche pretese.
«Per fortuna esiste Elisa (il nome di battesimo di Casadilego n.d.r.). È una musicista classica, una cantante di grande talento e poi dopo il primo provino ho capito che potevamo lavorarci su. Abbiamo affrontato insieme quattro mesi di preparazione e poi è arrivata la prova del set che è andata benissimo».
Non è alla sua prima direzione di una debuttante.
«È vero. Elisa, però, essendo una musicista, aveva il vantaggio di essere già in contatto con la parte più espressiva di sé. Nella recitazione ha riversato la sua personalità genuina ed è stata una scelta vincente».
Insomma è nata una stella?
«Sono molto fiero di lei. Per lei sul set ero lo “zio” Fabio, siamo ancora molto uniti».
È vero che ascoltavate musica insieme?
«Il nostro primo approccio non è stato sedersi su un divano e chiacchierare, è stata la musica a connetterci. Lei mi ha fatto ascoltare la sua playlist personale composta da quattro ore di musica, ed io ho fatto lo stesso».
Uno scambio molto profondo.
«Per conoscere qualcuno davvero non serve parlare ma condividere quello che si ama».
Con che musica è cresciuto lei?
«A nove anni, anziché il Castello di Greyskull chiesi a mia mamma l’album di Tracey Chapman».
E sua mamma come la prese?
«Si chiese perché un bambino così piccolo, cresciuto nel Gebbione, a Reggio Calabria, che a momenti non parlava l’italiano figuriamoci l’inglese, chiedesse l’album di una cantante lesbica, nera, americana che parlava di rivoluzione politica».
Già, perché?
«Perché dentro di me c’era già qualcosa di sbagliato, per fortuna».
E poi lo scaffale degli album come l’ha riempito?
«Di Bjork, Placebo, di rock e folk inglese. Ma fu mia madre, con una scelta precisa, a spingermi a fare il regista».
In che modo?
«Mi faceva ascoltare Lucio Battisti, fu per me un’epifania. Le mie prime parole furono quelle tratte da un suo brano».
La ricerca dell’identità è uno dei temi-madre dei suoi film. È come una firma.
«Per me l’essenza del cinema sta nell’esplorazione di una parte nascosta con cui entrare in contatto».
Si parla molto di identità, ricerca di identità, anche accettazione di identità. Per lei cos’è?
«Intanto non è una cosa sola, definita, rigida. L’identità è qualcosa che è sempre in crescita e in movimento. Cambia, non si può ingabbiare o catturare una volta per tutte».
È una ricerca che continua fino all’ultimo giorno?
«E non è forse bello così?»