In Nebraska sono le dieci di un mattino luminoso, novemila chilometri più a Est, le cinque del pomeriggio, in Italia, battono i rintocchi. La luce che arriva dai vetri alle sue spalle non dà fastidio, in gergo cinematografico, è un bianco che non “spara”, è naturalmente calibrata, sembra quasi obbedire a una mano invisibile. Oltreoceano Mauro Fiore allarga un sorriso e saluta con il suo italiano sfumato d’inglese. «Adesso sono a casa, mi riposo un po’ ma a ottobre torno sul set». Autunno lo aspetta alla soglia con Zach Braff, attore della serie cult degli anni Novanta “Scrubs”, e regista per la tv, che dirigerà un piccolo film con una storia raccolta, lontana dai fuochi d’artificio delle produzioni delle grandi major a cui Mauro è abituato.

«Per me è molto importante cambiare, mettermi alla prova avendo anche pochi mezzi a disposizione. In fondo per girare un film basta una videocamera e un posto con una buona luce naturale».

Mauro Fiore, il maestro della luce

“The Island”, “X-Men – Dark Phoenix”, “I magnifici Sette”, “Driven”, “A-Team” e ora “Spiderman – No Way Home”, sono solo una piccola parte dei lavori che portano la sua firma, ormai una garanzia. Meticoloso e gentile, quando venne in Calabria per girare uno spot con gli studenti dell’Unical disse emozionato: «Qui mi trattano come una movie star, è bello».

Mauro Fiore, calabrese di Marzi, cittadina a un pugno di chilometri da Cosenza, è un maestro della luce molto attaccato alle sue radici e, nonostante la sua agenda sia sempre piena, non risparmia mai un incoraggiamento a chi gli scrive chiedendogli un consiglio o qualche dritta. Vorrebbe tornare in Calabria, mettersi a disposizione dei ragazzi per insegnargli come si costruisce il colore del grande cinema, ma per il momento il telefono è muto, nessuno l’ha chiamato per avanzare proposte, idee. Un peccato e non veniale. «Ma io sono qui, aspetto».

Un “Fiore all’occhiello”

Per Fiore, che undici anni fa s’è sistemato la giacca e sorridendo, incredulo, ha preso tra le mani l’Oscar che Sandra Bullock gli porgeva, il lavoro è continuo, una girandola che concede pochi stop per ricaricare le batterie. «La mia vita dopo l’Oscar per Avatar sì, è cambiata. Prima i registi si stupivano del mio lavoro, si complimentavano se gli piaceva la fotografia, adesso mi chiamano perché sanno già che il livello è alto, quindi lo danno per scontato, e a questo non ci si abitua mai» dice sorridendo.

Il suo nome è nei titoli di testa e di coda del film più atteso dell’anno, “Spiderman – No Way Home” che ha sbriciolato in 24 ore il record assoluto di trailer più visto di tutti i tempi.

Mauro, come si dice? Il primo Marvel non si scorda mai…
«Beh sì, non avevo mai fatto un Marvel prima di questo Spiderman, è stata un’esperienza pazzesca. Parliamo di un progetto gigantesco, dove ogni cosa andava gestita al millimetro. In film del genere la fase preparatoria è semplicemente fondamentale, organizzare il lavoro, i tecnici... Partecipare a un’opera del genere vuol dire essere pronti a gestire ogni tipo di problema in fretta e bene e io mi sentivo pronto a farlo».

Com’è cambiato il tuo lavoro negli anni, soprattutto per te che fai spesso action.
«Per la pellicola ci voleva un certo punto di luce altrimenti col negativo non si vedeva niente, adesso con il digitale si riesce anche a girare con la luce naturale quindi il nostro lavoro anche da questo punto di vista si sta evolvendo. Quello che è importante è riuscire a mantenere una certa profondità. Per esempio c’è una cosa che proprio non sopporto vedere».

Che cosa?
«Quando l’attore è inquadrato alla finestra e, da fuori, la luce spara forte e mette in ombra completamente il soggetto. Altro particolare che non mi piace è quando, nel primo piano, il viso è totalmente illuminato e restituisce un effetto bidimensionale, piatto, ecco così si perde tutto quel gioco di ombre che dà profondità».

Raccontami una richiesta impossibile che ti hanno fatto sul set.
«C’era questa scena che andava girata di notte, in un bosco, senza alcun punto luce, neanche una torcia o un fuoco. Un gruppo di africani doveva fuggire da una prigione e attraversare la foresta. Ho detto al regista: “Ma è tutto buio, come faccio?” E lui: “Inventati qualcosa”».

La tua vita dopo l’Oscar per Avatar.
«Dopo quella sera ho avuto la grande possibilità di scegliere i miei progetti. Prima, ovviamente, non era così, ora ho più libertà ed è per questo che mi piace partecipare anche a piccoli film con una trama coinvolgente. Ecco, se mi capita un’occasione del genere io accetto sempre volentieri. Quando lavori su set come Spiderman, hai tutto quello che ti serve, un budget incredibile, per questo poi sento il bisogno di raccogliermi».

Un regista che ti ha sorpreso?
«Peter Berg. Con lui ho girato “The Kingdom”. All’inizio ero un po’ scettico, poi ho visto come parlava con gli attori, come li gestiva, è stato interessante osservarlo perché quando si girava una scena lui ci entrava dentro sia come attore che come regista».

Qual è il film che ti ha divertito di più?
«Mi è piaciuto molto lavorare sul set di “Smokin’ Aces” di Joe Carnahan, che è un mio caro amico con cui ho lavorato in altri due film, c’era un’atmosfera sul set di assoluto divertimento, un ambiente totalmente creativo, è stato come suonare con una band affiatata».

Con chi ti piacerebbe collaborare?
«Beh, sì, c’è qualcuno. Per esempio Paul Thomas Anderson, anche se lui adesso cura anche la fotografia dei suoi film quindi potrebbe essere complicato. In Italia sogno di affiancare Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, trovo i loro film diversi da tutti gli altri, sarebbe molto bello».

E a proposito di Italia, scorro la tua filmografia e noto che qui non hai mai girato o quasi.
«Non mi vogliono (ride). Non so perché non mi chiamano mai, spero che prima o poi accada. In realtà mi è capitato solo una volta di girare in Italia ma il regista era inglese».

E dalla Calabria ogni tanto arriva qualche proposta?
«Qualche anno fa all’Unical ho tenuto un seminario molto bello con un gruppo di studenti che mi ha accolto con un entusiasmo incredibile. Mi piacerebbe tanto tornare e ripetere l’esperienza. Io sono a disposizione, sono pronto, basta chiamare. Chiamatemi! Io non vedo l’ora di tornare».

In attesa che squilli il telefono, ai ragazzi che vogliono diventare, come dicono negli Usa, cinematographer come te, cosa consigli?
«Io credo sia un mestiere che parte da un’attitudine naturale. Osservare è la cosa più importante, ma anche provare un sentimento nei confronti di una certa luce, capire se quel riflesso del sole si sposa con la drammaticità della scena, ecco credo che questa sensibilità sia innata, o c’è o non c’è. A chi sente di amare questo mestiere consiglio di visitare mostre e guardare con attenzione i quadri dei grandi pittori che hanno creato le loro immagini, le composizioni, le disposizioni degli oggetti lontani e vicini, dopo lunghe osservazioni. E poi bisogna studiare fotografia, solo così si riesce a padroneggiare la luce».

La domanda che ogni direttore della fotografia dovrebbe farsi.
«Come faccio a creare profondità?».

Risposta?
«Osservare, avvicinarsi, studiare e poi osservare di nuovo».

I tuoi maestri?
«Durante i miei studi sono rimasto folgorato dal lavoro di registi come Fellini, Visconti, Pasolini, Bertolucci. Io credo che ognuno debba trovare quel film e quella scena che in un certo senso ti colpisce al cuore, che ti crea una visual experience. Ricreare un sentimento con la luce, ecco, questo è il segreto».