E dopo la sbornia iniziale - l’allegra rimpatriata tra amici dopo i lockdown - è arrivato l’hangover. Gli italiani rappezzatisi dopo le fratture su vaccini e presidenti si sono spaccati appena alla seconda puntata su Checcho Zalone. Ci sta.

Un Sanremo senza indignazione è come la messa senza Eucaristia (ma non diciamolo a Lauro altrimenti l’anno prossimo ci scomunicano tutti). Amadeus sarebbe da studiare seriamente per capire se ci è o ci fa, se è un genio o un Forrest Gump che camminando camminando si ritrova alla Casa Bianca (solo questo ci manca). La sua pacatezza ordinaria stride con talune scelte kamikaze come piazzare il comico barese sul patibolo più feroce d’Italia. Dove il popolo si riunisce affamato di pizza e sangue invocando chissà quale miracolo per poi salvare Barabba. Ecco il punto: ma Zalone è messia o ladrone?

Ad offendersi ieri: i calabresi, la comunità lgbtqi+, i parenti di Albano, Bassetti, Burioni.  Ma Zalone attacca le minoranze (che poi i Carrisi e i virologi manco lo sono) o interpreta il buzzurro medio italico pregno d’dio e pregiudizi per ridicolizzare lui?

Sarà più semplice andare a nuove elezioni che trovare una maggioranza a questa interrogazione.

A proposito di orali, ieri sono tornati i compitini a casa. Pensavamo di esserci liberati dei monologhi confezionati a mo’ di pezza sulla mancata parità d’accesso ai vertici della kermesse da parte delle donne (che sebbene nei comunicati ufficiali siano promosse a co-conduttrici sarebbe onesto chiamare vallette), ed ecco una ragazza tremante piazzata sulla forca di cui sopra che non ha potuto scendere la scalinata e sorridere, come richiesto il giorno prima alla collega Muti, ma ha dovuto pagare l’obolo della presenza sviluppando in pochi minuti, tra una portata e l’altra di un’osteria, l’enormità del razzismo.

Che il festival - e la televisione in genere - dia finalmente rappresentazione a tutti gli italiani è cosa non solo buona e giusta ma siamo pure in enorme ritardo, che pensi invece di dribblare il nodo dell’inclusione giocandosi ogni sera una carta diversa (la carta non è ovviamente la persona Lorena Cesarini o le altre che le succederanno, ma l’uso che si fa di loro) è la banalità del male. L’inclusione è spalancare le porte dell’Ariston alla variopinta umanità che compone i cittadini e le cittadine, lasciando fare agli artisti e alle artiste il proprio lavoro, non giocare a figurine.

Anche questo pensiero sarà oggetto di contestazione ma se non facciamo polemica che Sanremo è?

Un Sanremo più faticoso questo del secondo atto perché, passata l’ubriacatura dell’assembramento virtuale, i ritmi circadiani mutati degli italiani hanno iniziato a farsi sentire. Ma se pensiamo che arrivare all’ultimo blocco sia stata un’impresa, pensiamo alla povera Ditonellapiaga che si gioca Pechino Expressicon la Rettore!

Ci sono prove più ardue che restare svegli da Truppi a Moro, altro che Chimica e Chimica, ci vuole quello che prende la Zanicchi!