Il grande regista di “Twin Peaks” e “Elephant man” scompare all’età di 78 anni. La sua filmografia onirica e surreale ha segnato una generazione di cineasti e di spettatori che hanno amato le sue pellicole
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«È con profondo dispiacere che noi, la sua famiglia, annunciamo la scomparsa dell'uomo e dell'artista, David Lynch. Apprezzeremmo un po' di privacy in questo momento. C'è un grande buco nel mondo ora che non è più tra noi. Ma, come direbbe lui, "Tieni gli occhi sulla ciambella e non sul buco”». Con questo post la famiglia Lynch ha annunciato al mondo la scomparsa di uno dei più importanti registi dell’ultimo mezzo secolo. L’artista, qualche giorno fa era stato costretto a lasciare la propria abitazione a Los Angeles minacciata dalle fiamme e oggi questa notizia è arrivata come un fulmine a strappare il cuore di milioni di cinefili.
Lynch è riuscito, col suo cinema, a insediarsi negli angoli più reconditi della mente, dove prese di corrente sembrano visi impauriti, dove ogni porta è un passaggio verso un universo parallelo. Lui abiterà sempre in quelle pieghe elettriche, dove si celano visioni oniriche e inquietanti, capaci di trascinare lo spettatore in un abisso senza ritorno. È stato e sarà il maestro delle perle di piombo, dei frammenti di un’oscura massa aliena, che rimarranno annidati anche dopo la sua scomparsa.
David Lynch avrebbe compiuto tra pochi giorni 79 anni. L’ultima apparizione come attore lo ha visto interpretare John Ford in The Fabelmans di Steven Spielberg, accettando il ruolo con una condizione a dir poco surreale: essere pagato con un pacchetto di Cheetos. Che sia vero o no, questa aneddotica conferma l’immagine di un uomo fuori dagli schemi. Lynch non ha mai vissuto la quotidianità come gli altri: ha trasformato persino i bollettini meteo di Los Angeles, che trasmetteva ogni giorno, in vere e proprie opere d’arte contemporanea.
Le sue giornate hanno sempre seguito riti precisi e bizzarri: litri di caffè, meditazione trascendentale e interminabili pranzi al Bob’s Big Boy Diner di Los Angeles. Per sette anni, Lynch ha mangiato lì, sempre alla stessa ora – le 14:30 – poiché riteneva che fosse il momento ideale in cui la macchina del milkshake raggiungesse la temperatura perfetta. Questa ossessività, unita a un'ammirazione profonda per artisti come Francis Bacon e Federico Fellini, disegna un uomo maniacale e ossessivo, capace di osservare il mondo con occhi che vedono oltre. Le sue ombre lo hanno sempre seguito ovunque, e sono proprio quelle ombre che hanno reso il suo cinema unico, mostrando sempre l’inganno che si cela dietro la superficie.
David Lynch è un regista che ha amato dipingere mondi complessi, senza mai sentire il bisogno di spiegare nulla. Questo, però, non significa che dietro le sue opere non ci sia un significato: semplicemente, Lynch non si è mai preoccupato di fornire indizi evidenti o un filo da seguire. Le sue storie si muovono in un territorio in cui il bene e il male si mescolano continuamente, lasciando lo spettatore sospeso in un limbo.
Lynch non è un regista “facile”, e non lo sono nemmeno le sue opere. Elephant Man, ad esempio, è all’apparenza un film lineare, ma si rivela una frustata per lo spettatore più ingenuo: qui, la crudeltà umana si misura nell’ombra che proietta sul bene. Eraserhead – che lo stesso Lynch considera la sua opera migliore – è un viaggio claustrofobico, un sogno distorto da cui è impossibile svegliarsi.
La sua serie cult, Twin Peaks, è immersa in quella stessa dimensione surreale, un microcosmo dove tutto è familiare e alieno al tempo stesso. La terza stagione, uscita nel 2017, è forse il culmine della sua poetica: un’opera che dialoga con film come Mulholland Drive, dove una scatola blu – il colore simbolo del cinema lynchiano – diventa la chiave per un mondo parallelo. Il tema del doppio è onnipresente: i personaggi sono specchi deformati, maschere che nascondono altre maschere. In Strade perdute, il tempo stesso si piega e si confonde, creando un valzer narrativo che si muove tra passato e futuro senza soluzione di continuità.
In Cuore Selvaggio, Lynch porta Nicolas Cage e Laura Dern in un ballo pericoloso tra passione e violenza. Il film, che vinse la Palma d’Oro nel 1990, prende il titolo da una soap opera, un genere che Lynch ha sempre usato come terreno fertile per il suo surrealismo. Ma è Laura Palmer, la protagonista di Twin Peaks, a perseguitare il regista come un fantasma. La sua storia viene approfondita nel controverso Fuoco cammina con me, un film che, pur non essendo tra i più amati della sua filmografia, continua a dividere critici e spettatori.
Il cinema di Lynch è un gioco sotterraneo, un esperimento di visione collettiva partecipata. I suoi simbolismi e totem sono strumenti per svelare una verità inquietante: il confine tra giusto e sbagliato è labile, e spesso ciò che è moralmente ambiguo è anche ciò che più ci attrae. Non ci sono veri doppelgänger, ma solo varianti di uno stesso copione, marionette mosse da un unico burattinaio: Lynch stesso.
Come accade nel cortometraggio di Pasolini, Che cosa sono le nuvole?, il burattinaio non si nasconde, ma si mostra apertamente. Lynch osserva i suoi personaggi, li guida e li abbandona, lasciandoli naufragare in corridoi stretti e oscuri. È un viaggio che richiama le atmosfere di Francis Bacon e Edward Hopper, artisti che hanno ispirato molte delle sue visioni.
Il cinema di Lynch non dà risposte, ma spalanca porte verso l’ignoto. Una volta varcate, non c’è ritorno. E ora che lui non c’è più, non possiamo davvero sapere se sia andato lontano o se, invece, sia rimasto intrappolato in qualche piega dello spaziotempo, e che da lì continui a guardarci.