La vita che cambia nel giro di pochi minuti, trovarsi a fare i conti con il dolore e la morte, mentre tutto attorno, burocrazia compresa, sembra non avere un'anima. Scendere all'inferno e venirci a patti fingendo normalità, sapendo che tutto ciò che puoi fare è allungarti la vita di qualche mese. È quello che è accaduto alla protagonista di questa storia, Rita Salemme, 42 anni, sposata e madre di due bambini, che fino a 3 anni fa viveva la sua esistenza in maniera tranquilla e spensierata sulle colline di Santa Domenica Talao, borgo di rara bellezza che sovrasta le coste dell'alto Tirreno cosentino. Poi, la donna, da un giorno all'altro, è stata costretta a scontrarsi con il destino beffardo e uno Stato che, anziché aiutare i pazienti, toglie loro dignità più di quanto faccia già la malattia stessa.

La diagnosi agghiacciante

E' un giorno qualunque del 2016, Rita si accorge per caso di avere un protuberanza dal lato sinistro dell'addome. Il medico esegue una prima ecografia per capire di cosa si tratta e riscontra un gonfiore sospetto alla milza. La paziente si precipita quindi all'ospedale Annunziata di Cosenza per sottoporsi a una serie di esami ematologici. Ma lì, l'iniziale ottimismo si infrange contro la dura realtà. Dagli esiti dei markers tumorali si evince una mutazione somatica nelle cellule mieloidi indicata con la sigla V617F. In altre parole, Rita è affetta da mielofibrosi, una condizione patologica caratterizzata da progressiva sostituzione del midollo osseo con materiale fibrotico, che ne sovrasta la struttura. L'anticamera della leucemia. La sindrome appartiene al gruppo delle cosiddette neoplasie mieloproliferative ed è potenzialmente fatale. Si tratta di un tumore raro, dal quale non si guarisce e, anche se negli ultimi anni la medicina ha compiuto passi da gigante per aumentare la sopravvivenza dei pazienti, ad oggi le aspettative di vita in media si aggirano intorno ai 6 anni dal momento della diagnosi, che spesso coincide con la comparsa dei sintomi.

Il danno e la beffa

Per Rita è l'inizio di un incubo. Da un lato deve metabolizzare la sua condanna a morte, dall'altro deve mostrasi serena ai suoi due figli. Nel frattempo, gira su e giù per l'Italia, nonostante le poche forze, principale conseguenza della sua malattia, in cerca di speranza. Ma, ogni giorno, di più il senso di abbandono da parte delle istituzioni frena la sua battaglia. «Sono una guerriera, sorrido e lotto per chi mi ama - dice Rita -, ma sento di essere un peso per la mia famiglia, perché ogni tre mesi devo andare fuori regione per i controlli». Tutto a sue spese, perché l'Inps, incredibilmente, non le riconosce né l'invalidità nél'inabilità al lavoro. «Mi auguro che nessuno provi mai l'umiliazione di "non sentirsi abbastanza malato" per avere un diritto alle cure».

La lettera al ministro

Stremata dalla malattia e dall'indifferenza, Rita ha deciso di scrivere una lettera al neo ministro della Salute, Roberto Speranza, e per farlo ha scelto di affidarne il contenuto alla nostra redazione. «Egregio ministro della Salute - è l'incipit della missiva - le chiedo cinque minuti del suo tempo e mi auguro legga questa lettera con il cuore perché io le ho scritto con il cuoe. Sono una donna di 45 anni, mamma e moglie che circa 4 anni fa ha provato la sensazione di cadere dentro un baratro».

Una malattia infame e silenziosa

«Ricordo ancora lo sguardo del medico che per primo mi ha sottoposto all'ecografia - continua Rita nella sua lettera -, era perplesso. Mi consigliò una visita ematologica e il centro più vicino è a più di un'ora di macchina, all'ospedale di Cosenza. In seguito a biopsia ossea i medici rilevarono la mutazione. Accadde tutto durante erano le festività natalizie. Non le dico il mio stato d'animo, con due figli, di cui il più piccolo di un anno appena. Per di più, la diagnosi di mielofibrosi mi venne comunicata da un medico che neppure mi spiegò cosa fosse e cosa mi sarei dovuta aspettare. Mi disse solo che comprendeva la mia paura perché sono giovane e che con il mio permesso avrebbero sperimentato un farmaco su di me, ma solo dopo un certo periodo. Mi sono sentita sola, perduta. Sono stata costretta a recarmi altrove. Al reparto di Ematologia dell'ospedale Umberto I di Roma ho ho visto l'amore per la professione, l'umiltà dei sanitari. Lì ho avuto tutte le risposte alle mie domande. Ora conosco il mio nemico e sono quattro anni che combatto con questa malattia bastarda, infame e silenziosa. Chi ci guarda pensa che siamo in buona salute e invece soffriamo stanchezza patologica, dolore alle ossa, carenze di forza, vertigini, prurito al contatto con l'acqua e tutto ciò che ne consegue».

Malati di serie c?

Rita è delusa e arrabbiata. «Perché siamo malati di serie c - chiede ancora al ministro- ? Perché la nostra malattia non viene riconosciuta al pari di altre malattie invalidanti?». Ed in ultimo: «Sa cosa si prova a guardare negli occhi i propri figli e non sapere per quanto tempo potrai rimanere con loro? Mio marito lavora saltuariamente anche per seguire loro e per seguire me durante i ricoveri, secondo lei come potrò continuare a curarmi?».