Sergio Mattarella ha fatto un discorso di alto profilo. Le sue parole hanno registrato un alto gradimento tra i parlamentari. Applausi di deputati e senatori, fino alla standing ovation finale. Eppure, seppur nel contesto dello stile matterelliano, il presidente non ha nascosto una velata critica nei confronti del sistema politico, parlamento e partiti, in particolare sulla loro capacità di rinnovamento, consapevole che, in gran parte dell’opinione pubblica, permangono scetticismo e sfiducia nei confronti delle forze politiche.

Le rilevazioni di queste ore registrano un gradimento degli italiani per Mattarella e l’istituzione della Presidenza della repubblica intorno al 75%, mentre i maggiori leader politici si fermano tutti al di sotto del 40 ad eccezione del premier che si aggira intorno al 60%.

L’immaturità della politica

Al di là delle chiacchiere, dunque, e al netto di qualsiasi retorica, strumentalità, opportunismo di partito, e anche al netto delle posizioni di una stampa che spesso accentua normalissime contraddizioni dialettiche, il paese ha un problema molto serio, anzi una malattia: l’immaturità delle forze politiche rappresentate in parlamento. In un contesto del genere, dunque, le standing ovation lasciano il tempo che trovano. E, d’altronde, i sintomi di questa patologia politica si erano già manifestati un decennio fa, con la ri-elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale. Napolitano lo evidenziò senza mezzi termini nel suo discorso di insediamento, denunciando la sordità dei partiti ai suoi appelli di assunzione di responsabilità oltre gli schieramenti e oltre gli interessi di bottega. 

Le parole di Napolitano nell’emiciclo di Montecitorio furono sferzanti, all’indirizzo di forze politiche, sorde ai suoi richiami per anni, e che si erano presentate al suo cospetto in braghe di tela, esortandolo a rimanere, perché incapaci di trovare una soluzione unitaria per eleggere il suo successore. Anche a lui il parlamento riservò una standing ovation. Nove anni dopo, sostanzialmente, siamo nelle stesse condizioni. La lezione di allora non è servita a nulla.

«Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, - ammoniva il Presidente rieletto di fronte all’assemblea dei grandi elettori -  è segno di una regressione, di un diffondersi dell'idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione - fino allo smarrimento dell'idea stessa di convivenza civile - come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti». Un monito quello di Napolitano che richiamava il suo intervento di 7 anni prima, quello del 2006.

«Il tempo della maturità per la democrazia dell'alternanza: che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità». I lustri, purtroppo, sono passati invano. E poco o niente è cambiato. Gli applausi tributati a Giorgio Napolitano al momento della rielezione lasciavano bene sperare. Dovevano riformarsi, avevano preso l’impegno di aprirsi alla società. E invece? Niente. Sono rimasti ciò che erano: élite autoreferenziale, senza alcuna passione e radice, senza connessione sociale, senza identità.

Oggi sono ancora lì, con gli stessi difetti e gli stessi vizi. Dopo 10 anni non è cambiato niente. Guelfi e Ghibellini continuano a litigare, incapaci di assumersi le responsabilità di fronte al bene comune, pronti a trovare soluzioni solo di fronte ai commissari della “provvidenza”: Monti ieri, Draghi oggi. Tutto ciò ha un solo nome: immaturità. Possiamo tranquillamente affermare che la malattia si è aggravata.

Un ceto politico scadente

Lo sapevamo. Lo sapeva il popolo. Lo sapeva la stampa. Cosa ci dovevamo aspettare? Che esprimessero una statura politica elevata e non sguaiata, che riuscissero a dialogare e ad accordarsi come impone la Costituzione, che si comportassero da veri statisti? Cosa pensava il popolo italiano di aver eletto un Parlamento composto da statisti del livello di Moro, Giolitti, Andreotti, Berlinguer, Fanfani, Craxi, Croce ed Einaudi?  Ma su non scherziamo. Ci troviamo di fronte ad un ceto politico che il massimo della performance che è stata capace di mettere in atto in questi anni è stata quella di bloccare qualche disperato su di una nave, cavalcare le idiozie dei no vax nel pieno di una pandemia disastrosa, avallare il qualunquismo velenoso venuto fuori da piazze dove il programma politico era rappresentato da un “vaffa”, buttare in una delirante discussione parlamentare lo ius soli o il ddl Zan nel mezzo di una di grande emergenza nazionale.

Se questo è il contesto politico che ha espresso i grandi elettori, ci è sembrata grottesca la meraviglia e l’indignazione di fior di opinionisti, perché il Parlamento si è preso sette giorni per decidere. Sette giorni per decidere chi va al Quirinale per sette anni, non ci appaiono tantissimi. Tutti ad indignarsi, giornalisti e opinione pubblica, contro i loro rappresentanti politici, indignazione iniziata nei giorni dell’impasse e esplosa dopo la rielezione di Mattarella. Ora, a meno che, la creme degli editorialisti del paese, siano così ipocriti al punto da ignorare che questo ceto politico è stato scelto dal popolo italiano, questa indignazione, onestamente, ci è sembrata un inutile esercizio di ipocrisia in salsa italiana.

Non nascondiamoci dietro la teoria ipocrita che il popolo ha sempre ragione, se il paese si trova questa classe politica, il popolo porta le sue responsabilità, magari solo per il fatto di aver rincorso le facili suggestioni del populismo anti politico e del qualunquismo un tanto al chilo.

La politica collassa l’istituzione regge

Nonostante tutto ciò, questa vicenda ha comunque un aspetto positivo: un parlamento politicamente messo male, con un ceto politico messo peggio, inadeguato e nel pieno della difficoltà sociali ed economiche, alla fine trova la forza collettiva di una via d’uscita all’impasse, riconsegnandoci una personalità di alto profilo come Sergio Mattarella.

Ciò, significa una sola cosa: la politica collassa ma l’istituzione regge. E se reggono le istituzioni regge la democrazia. E la democrazia alla fine presto o tardi riuscirà a rigenerarsi. In un quadro di oggettiva decadenza, dunque, la solidità dell’istituzione ci garantisce con un punto di “caduta alto”. Se tutto ciò è vero, e lo è, il solo immaginare che l’attuale sistema di elezione del Presidente della repubblica possa essere affidato alla elezione diretta del popolo, è semplicemente folle! Tra l’altro, con un “popolo” sempre più disaffezionato alle urne, come si evince dai dati sulla partecipazione agli ultimi appuntamenti elettorali come le regionali, le suppletive alla camera, le comunali di Roma, percorrere una ipotesi del genere sarebbe un pericoloso atto di avventurismo politico.

Vi immaginate una elezione diretta del Capo dello stato senza popolo? Sarebbe la più funesta e indigeribile riforma che condurrebbe inevitabilmente al Quirinale un uomo di parte, nell’assurda e pericolosa idea dell’uomo forte al comando. Risolvere la crisi dei partiti con tentazioni plebiscitarie rivela la scarsa consapevolezza di alcuni leader politici nella comprensione dei motivi della crisi dei partiti. Il plebiscitarismo in questo paese ha avuto derive tragiche. Per fortuna per i prossimi 7 anni avremo ancora un garante della costituzione, un simbolo dell’unità nazionale, il quale saprà arginare i bassi istinti del populismo politico e la deriva della immaturità delle forze politiche.