Le ha trafugato il respiro, ne ha interrotto lentamente il pianto flebile, somministrandole un supplizio diluito lungo interminabili giorni, dentro una casa dalle pareti sorde. Ha scientemente deciso di comminarle un'agonia atroce, scandita da palpiti sempre più sporadici. La piccola Diana ha conosciuto così l'interminabile prologo di una irrevocabile fine.

Sua madre ha lasciato che morisse di stenti. Il mostro, questa volta, ha agito in modo chirurgico. Il mostro, questa volta, è una donna vorace e bulimica di altra vita. Lontano dalla bimba. Oltre l'incedere "quieto" del tempo domestico. Lei ha bisogno di azzannare l'ebbrezza di un altro tempo, con l'ingordigia tipica  di una lupa. Famelica e  criminale, oltraggia il soffio del suo stesso ventre pur di lambire l'ebbrezza di un uomo e di un malfermo amore.

Alessia Pifferi è assassina laida cui non si deve alcuno sguardo di compassione. Chiunque sia tentato di censirla tra gli epigoni di Medea, sappia che il mito greco (incongruo nel caso di specie) non è da convocarsi per consumistiche suggestioni, che rischiano di raggirare la sensibilità pubblica. I compunti "tecnici dell'anima",  puntualmente precettati dalle solite pomeridiane televisive, tendono ad imbrigliare i fatti in vecchie e sbrigative casistiche di maniera. Si cerca di addobbare la nuda cronaca con abiti sdruciti. Per ridurla in mansuetudine didascalica. Sennonché, la cronaca è sempre lì. Imperturbata. Avara di cedevolezze. Indomita e ribelle. Difficile da braccare e da sospingere dentro la prigionìa di abusati compitini. Con buona pace dei notissimi "trafficanti" di scienze umane da discount, intenti a smerciare il solito kit di assoluzioni a buon mercato.

La storia della Pifferi, semmai, reca con sé un gigantesco equivoco. La maternità non è, come si ritiene erroneamente, materia di stretta osservanza biologica; essa, al contrario, confina con l'ardimento. L'essere madre è scelta, traiettoria da compiersi, ragionevole audacia: tutt'altro che ineludibilità naturale di genere. La maternità è discernimento di un disegno, non destino inderogabile per ogni femmina. Esige caratteristiche, a tratti, sovrumane. Di coraggio e di equilibrio. Non per tutte. Personalmente, mi sono sempre tenuta a debita distanza dal procreare e dall'allevare altri da me, non riconoscendomi all'altezza di un impegno così arduo e controverso. Per questo, forse, ho sempre nutrito profondo rispetto per le madri compiute e forti. Quelle degne di essere definite tali. Capaci di una così alta, laica sacralità. Non saprei eguagliarne il tratto, per la qual cosa le venero sommamente. Le madri. Parimenti, amo, oltre ogni misura, la piccola Diana. L'amo con tenerissima fermezza, mentre la stringo tra braccia maldestramente materne. Le mie.