L’odissea dell’Amaco sembra non avere fine, e ai guai finanziari che in precedenza hanno determinato il fallimento dell’azienda cosentina di trasporto pubblico, si aggiungono quelli giudiziari di chi ne ha retto le sorti negli ultimi anni. Sei persone, infatti, sono coinvolte in un’inchiesta della Procura di Cosenza giunta, nelle scorse ore, alla conclusione delle indagini preliminari, ma quasi tutte le accuse sono a carico di un solo indagato: il già amministratore unico Paolo Posteraro. A lui, il pm Maria Ludovica Blasi imputa di aver causato il «dissesto irreversibile» della società, prima della liquidazione giudiziale avvenuta nel 2023. L’ipotesi è che lo abbia fatto attraverso una serie di «operazioni dolose» per le quali, oltre al Codice penale, gli inquirenti scomodano quello della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Non a caso, a Posteraro si contesta di aver nascosto l’azzeramento del capitale sociale dell’Amaco, risalente già nel 2018, iscrivendo in Bilancio una serie di “attivi” in realtà inesistenti. Un elenco che contempla plusvalenze generate nel 2018 con la vendita “gonfiata” di un terreno; crediti d’imposta ottenuti in modo illegittimo per spese in progetti di ricerca mai sostenute; debiti compensati con crediti non spettanti e, dulcis in fundo, fusioni come quella avvenuta nel 2021 con la controllata Asmc, quando la società che si occupava del servizio scuolabus era già in crisi economica, un particolare sottaciuto al momento della fusione.

Insomma, tutte condotte che, rilevanza penale a parte, sono rivelatrici di un tentativo disperato di far quadrare conti impossibili da quadrare. Del resto, che l’Amaco fosse ormai decotta e senza chance di sopravvivenza, travolta com’era da debiti per sedici milioni di euro, lo hanno stabilito già le sentenze dei Tribunali civili. E in tal senso, un altro dei capi d’imputazione contestati a Posteraro - il mancato versamento di oneri tributari e previdenziali per dodici milioni di euro, dal 2016 al 2023 – offre solo un'ulteriore prospettiva sull’abisso in cui era sprofondata l’azienda.

Una situazione insostenibile da cui il diretto interessato si era tirato fuori a novembre del 2022, con qualche mese d’anticipo rispetto alla scadenza naturale del suo mandato. Dimissioni all’epoca presentate quando il crac dell’Amaco era già nell’aria, un epilogo che, in quei giorni, il diretto interessato attribuiva alla mancata ricapitalizzazione dell’azienda che, in precedenza, il sindaco Franz Caruso gli aveva invece «promesso».

Ma tant’è. Lui e gli altri indagati hanno ora venti giorni di tempo per presentare memorie difensive o chiedere di essere sentiti dai magistrati nel tentativo di chiarire le rispettive posizioni ed evitare così l’incriminazione. In caso contrario, nei loro confronti scatterà la richiesta di rinvio a giudizio.

E a proposito di altri indagati: un capo d’imputazione è riservato a Gaetano Petrassi, revisore dei conti dell’azienda tra il 2018 e il 2022 e a chi, nello stesso periodo, ha fatto parte del collegio sindacale dell’Amaco. Di quest’ultimo gruppo fanno parte l’allora presidente Wladimiro Vercillo e i sindaci effettivi Giuseppe Pettinato, Valentina Cavaliere e Adelina Di Pietro. A loro si rimprovera, in concorso, di non aver ottemperato «agli obblighi di vigilanza e di controllo sulle attività dell’amministratore unico» e di aver approvato i bilanci aziendali di quel quinquennio senza sollevare obiezioni. A difenderli sono, tra gli altri, gli avvocati Franco Sammarco, Eugenio Bisceglia, Bianca Zupi e Riccardo Panno.