La scuola non è solo un ricettacolo di batteri è anche, e soprattutto un’epidemia di esperienze fondamentali per diventare grandi (o per decidere di non diventarlo mai)
Tutti gli articoli di Innocenti Evasioni
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Di tutto questo pasticcio chiamato emergenza la scuola è il punto più dolente. Se non si procede a una rivoluzione, a breve la Calabria sarà un ospizio a cielo aperto e allora sì che parleremo solo di Covid, come i reduci della grande guerra prima di noi.
Sono anni che non tornano quelli tra i banchi, inutile fingere: Mykonos non è la gita, Zoom non sarà mai la ricreazione ed oziare sul divano non ha nulla a che vedere col marinare le lezioni. La scuola non è solo un ricettacolo di batteri è anche, e soprattutto, un ricettacolo d’adrenalina. Un’epidemia di esperienze fondamentali per diventare grandi (o per decidere di non diventarlo mai).
La discussione sui vaccini è degenerata a tal punto che si è perso di vista che l’abbandono scolastico (emergenza nell’emergenza) è il focolaio di tutte le discriminazioni perché l’istruzione sta alla base delle difese immunitarie. Solo la cultura protegge dagli attacchi alla libertà ma pure i luoghi deputati alla sua divulgazione restano tuttora in sospeso.
L’autunno è alle porte ma ancora non è dato sapere che fine faranno molti dei posti che sono stati casa lontano da casa e scuola dopo la scuola. Se ci saranno concerti, prima a teatro, nottate in discoteca. Se le strutture che finora hanno ospitato tutto questo saranno condannate a morte, assieme a tutta quella vita bollata come «non essenziale» ma senza la quale non è più vita.
L’anno scolastico è partito in presenza, alleluia, ed in presenza deve restare a tutti i costi, altrimenti sarà l’irreparabile. La scuola si deve toccare, è un luogo fisico prima che metafisico. E servono risposte anche sul dopo, perché tutto ciò che si fa una volta fuori è parte integrante di uno stesso processo formativo indispensabile a riempire quel bagaglio che più semplicemente chiamiamo background. Si deve stare in aula, annusare gli astucci, imitare i professori ma una volta suonata la campanella non si può immaginare la socialità come uno stato brado (sebbene anche quello abbia la sua importanza). Ci deve essere una proposta, servono stimoli, serve la musica, servono occasioni, servono palestre.
O quanto meno urgono spiegazioni.
La campagna elettorale è nel pieno con palchi e platee da raduno rock. E allora perché durante i live bisogna ancora stare seduti? Stiamo assistendo a veri e propri tour di propaganda, a destra e sinistra, dove le folle sono create dai medesimi oratori che bandiscono il ballo (anche a chi è green pass-munito), perché? Nessuno nega la persistenza del virus, ma ci sono anomalie talmente eclatanti che qualche domanda sorge spontanea. Nel mirino di chi muove i fili dell’emergenza c’è l’infezione o uno stile di vita? Le incognite sul destino degli spazi destinati all’arte e all’intrattenimento replicano quelle dell’epidemia o dell’ideologia?
Chi si fa un giro in città, soprattutto quelle interessate dalle votazioni, avrà notato un certo fermento: gazebo, pulpiti, persone ammassate. L’angoscia mediatica viaggia in un limbo che per niente somiglia ai marciapiedi tornati alla normalità. I ragazzi si scambiano effusioni e birre nei bar, per fortuna, ma per assistere ad un festival dovranno usare il green pass sì, ma per andare all’estero (dove il settore spettacolo è quasi ovunque ripartito a regime). È normale?
Nessuno sembra avere risposte sull’inverno che ci aspetta ma di quesiti, invece, ce ne sono infiniti. Il mio augurio agli studenti è proprio questo: che non smettano mai di farsi domande soprattutto quando chi dovrebbe replicare fa scena muta. Le interrogazioni restano essenziali, ma di essenziale non si vive.