La descrizione della lentezza, declinata per ripetizione. La rassicurante monotonia dei gesti, sempre uguali, degli spazi, piccoli e scarni, senza orpelli. Vita modesta, non povera. Vita raccolta, non triste. Rumori accarezzano l'ascolto, provocando un formicolio di piacere. Sono quelli di un nastro che entra nel mangiacassette. Di una spugna che sfrega, di uno straccio umido che sciaguatta in un secchio, di una porta che si chiude, di una giornata che finisce. Tutto nel film di Wim Wenders "Perfect Days" (da poco sulle piattaforme), si ripete in loop, il giorno dopo e quello dopo ancora. La lavanderia a gettoni la domenica, l'insaponata al bagno pubblico, l'acqua con ghiaccio alla fine di una dura giornata di lavoro, lo scatto di una foto per cogliere l’attimo del sole che s'infila tra le foglie degli alberi, casuale, non ricercato, per catturare un momento che si nasconde agli occhi degli osservatori.

I libri di Hirayama

Così è la vita che ha scelto Hirayama. Perché pulisca bagni per vivere, non è dato saperlo. Non importa. Lui sembra sereno. A tratti felice. Quando si sveglia all’alba, il suo primo gesto è guardare il cielo e sorridere. Legge “Le Palme selvagge” di Faulkner, steso sul suo futon, con la luce di una lampada da studio appoggiata al pavimento. Parla di due racconti allacciati dalla solitudine, quella di una coppia che si aliena e quella di un salvataggio di una partoriente intrappolata su un albero che si risolve nel ritorno a un’esistenza ingabbiata. Storie in montaggio alternato che paiono, tuttavia, non avere punti di contatto apparenti, eppure sì, sono intrecciate. Sfoglia “Gli alberi” di Aya Koda (ancora gli alberi), “Urla d’amore” (Eleven) di Patricia Highsmith, raccolta di brevi racconti in cui quello che dà il titolo al libro nella versione italiana, ritrae la routine di due anziane, ospiti di una casa di cura, che conducono una vita ripetitiva e abitudinaria, cercando piccole emozioni nei dispetti che rendono una all’altra.

Viaggio in Giappone

Wim Wenders torna al suo grande amore, il Giappone. Nel 1985 il regista tedesco aveva reso omaggio al regista Yasujiro Ozu, con un documentario “Tokyo Ga” (Immagini da Tokyo) - girato mentre era in lavorazione “Paris, Texas” - una riflessione personale, un atto di amore profondo per l’autore nipponico che aleggia anche in “Perfect Days” nel nome che Wenders ha dato al protagonista, Hirayama, ricorrente nei film di Ozu (“Il gusto del sake”, “Fiori di Equinozio”). Il regista giapponese ha sempre raccontato le microstorie di un Paese che cambiava con l’avanzare dell’industrializzazione, lasciando indietro le vecchie generazioni che faticavano a riconoscere un tessuto urbano che mutava forma celermente, e ad accettare le trasformazioni delle solide tradizioni familiari (come vediamo in “Viaggio a Tokyo” considerato il capolavoro di Ozu).

Occhi da orientale

Wenders bene fa ad affidare a Koji Yakusho (“Memorie di una geisha”, “Doppelganger”, “Babel”) il volto e l'anima del suo protagonista che ha molte più ombre di quanto si pensi. La genesi del film parte dal progetto di un documentario sulla ristrutturazione dei bagni pubblici del quartiere di Shibuya affidato a Wenders. Ma il regista tedesco ha subito colto le potenzialità di una storia che poi ha inteso sviluppare in modo più complesso e poetico, anche se la sensazione che il film resti comunque il racconto di un Occidentale che vorrebbe essere Oriente, senza riuscirci fino in fondo (impresa forse impossibile), resta. Nonostante l’amore, la conoscenza, il vissuto, la passione di Wenders, Hirayama a tratti è come se mostrasse la maschera, il trucco, specie quando vive quei pochi momenti di rottura dell'equilibrio a cui si aggrappa. Il pensiero, lieve ma persistente, è che se il protagonista fosse stato uno straniero inserito nel tessuto nipponico, tutto sarebbe stato molto più efficace e potente.

Il komorebi, la luce e l'ombra

Nel dialogo, uno dei pochi, tra Hirayama e la sua giovane nipote, sull’importanza del presente («l’adesso è adesso...») vagano le arie di quell’incipit del magnifico “Il cielo sopra Berlino”, scritto da Peter Handke, quando si parlava del tempo rispetto alla percezione del bambino, inconsapevole della sua infanzia e connesso col momento presente, come se il Tempo si diramasse ovunque e permeasse tutto. Lo scorrere dei giorni per Hirayama, per quanto egli si sforzi ad amare questo movimento circolare in cui ha incastrato il suo vivere, come il sole che sorge e tramonta, ha però un peso che grava sul volto del protagonista quando finalmente lo sguardo si sposta verso l’orizzonte irradiato dai primi raggi. La sua esistenza, composta da ramoscelli all’apparenza fragili e sottili, è sorretta dall’arbusto dell’illusione che incastonando una vita irrisolta nella solida certezza della ripetizione, questo possa bastare ad essere felici. Wenders dissemina il dubbio citando il komorebi (parola formata da kanji, albero, unito allo splendore e al sole) per indicare il contrasto tra la luce e l’ombra, che ballano sul filo dell’attimo.

Il sorriso di Hirayama è quel komorebi che il personaggio cerca di cogliere fotografando le fronde degli alberi tagliate dalla luce: si spegne nella disperazione, per poi tornare sorriso per poi oscurarsi nuovamente. E non bastano le note dei Velvet Underground, di Patti Smith e di Lou Reed a convincerlo del tutto che i suoi sono giorni perfetti, scevri dal dolore perché lontani dall’amore, lontani dalle persone, lontani dal mondo. Il dolore alla fine ti trova sempre, perché conosce tutti i rifugi.