Yorgos Lanthimos vuole luci fredde, ambienti definiti, bocche grandi per mangiarci meglio. Il suo trionfo a Venezia con “Poor Things” (tratto dal romanzo di Alasdair Gray) e che sarà nella sale italiane non prima della fine di gennaio 2024, è la conferma di un grande talento, di una voce con una personalità dirompente, riconoscibile anche in mezzo a tanti che cercano di percorrere la strada del cinema del disturbo, dei nervi, ma senza provocare lo stesso effetto di straniamento del mago di Atene. Lui detiene la ricetta alchemica per scomporre il terrore profondo e servircelo a pranzo («e ora mangia»).

La “strana onda greca” che cavalcarono Lanthimos e Athina Tsangaris, fece conoscere al mondo un’arte cinematografica visionaria, una scuola di stile e storie che tende i racconti tra l’assurdità e l’incubo, i paradossi e il grottesco spinto verso il sangue, con l’intento di rimestare con un dito in anfratti melmosi del subconscio e cavarne disagio distillato. È un cinema che trae linfa dalla crudeltà estrema espressa nelle tragedie greche (chi altri potrebbe ispirarvisi, se non Lanthimos) in cui spesso le morbosità si traducono nell’omicidio anche della propria stirpe, per ritorsione o sadismo.

Il regista gioca con l’istinto e ne fa beffe, inducendo il malessere del pensiero: è come nella coulrofobia, la paura dei clown, in cui gli occhi avvertono un pericolo da quella faccia sproporzionata e il corpo reagisce con l’adrenalina. In questo cortocircuito emotivo, in cui hanno la meglio le fobie istintive, si muove il cinema di Lanthimos che porta in dote anche una certa dose di sarcasmo che lo distingue da epigoni come Avranas, che pur agguantò il Leone d’argento alla regia nel 2013 con il cruento Miss Violence, a che resta lontano anni luce dallo stile unico e raro di Lanthimos.

Ecco quattro film, disponibili in streaming, per conoscere il regista delle paure segrete

“La favorita” (Disney+, Prime Video)

È apparentemente il film meno disturbante di Lanthimos, ma in questo t’inganna. Urla «Kubrick» in tutti gli angoli damascati, dalle candele di Barry Lyndon al pallore dei comprimari, mai, però, come in forma di implorazione per un’ispirazione che non arriva, ma come una preghiera di ringraziamento. Olivia Colman, è un gigante nei panni della regina Anna, sovrana ormai al tramonto, malata e debole, di umore cangiante come certi cieli d’autunno. Nel cast l’attrice amatissima da Lanthimos, Emma Stone, elogiata pubblicamente all’ultima Mostra di Venezia (è la protagonista di "Poor Things"), nei panni di una nobildonna che cerca di farsi prossima alla regina morente cercando di elevarsi di rango a tutti i costi. È ottimo cibo per gli occhi e lo spirito, questo film che racconta di una guerra tra donne che smuove i destini di un Paese intero, cosa che tra l’altro non dovrebbe suscitare chissà quale sorpresa.

“Dogtooth” (Prime Video)

Un film a due tempi perché vinse nella sezione Un Certain Regard al 62º Festival di Cannes del 2009, ma che nei cinema italiani arrivò solo nel 2020, ben undici anni dopo (follie da distribuzione). Va detto subito: è un'opera che fa davvero molta paura e dai primissimi istanti. Terrorizza al punto da dover tenere i braccioli della poltrona con due mani. Tanta è la tensione e lo smarrimento che si prova a esserne spettatori, che viene d'istinto voglia di fuggire solo per dimostrare a sé stessi che è solo un film, che siamo svegli, che non è la nostra vita. Il regista greco è un maestro del disagio, ti rende cieco in una stanza affollata. È una qualità di paura molto particolare, grigia e chiara, un amo che pesca nei nostri desideri e tira su un mostro. E il mostro è il controllo totale e assoluto su una cosa che in fondo crediamo ci appartenga totalmente: i nostri figli.

“The Lobster” (Prime Video) 

In un mondo che concepisce gli esseri umani solo in coppia, i single sono destinati a diventare animali (ma ognuno può scegliere quale). Le trame di Lanthimos mettono i brividi anche solo a leggerne qualche riga di sinossi e il film non è da meno. The Lobster è il debutto in lingua inglese del regista greco e ha come protagonista l’attore irlandese Colin Farrel che indossa i panni, scomodi, di un placido architetto ospite di un hotel, ultima chance per uomini e donne di trovare l’altra metà della mela che li salvi da una reincarnazione bestiale. L’amore e le convenzioni sociali, sono declinati nell’alfabeto dell’assurdo e della paranoia, nei toni freddi della fotografia e nei dialoghi aberranti che ci trasportano in una dimensione che, pur così distante, per due ore ci sembrerà un po’ troppo vicina.

“Il sacrificio del cervo sacro” (Prime Video, Sky, Now e Tim Vision)

Colin Farrel e Nicole Kidman si arrendono ai silenzi colmi d'ansia di Lanthimos in un film sui sensi di colpa e il peccato, scritto a quattro mani con Efthymis Filippou, che respira le arie dell’Euripide della tragedia "Ifigenia in Aulide" in cui il condottiero Agammenone è costretto a riparare al torto di aver ucciso il cervo sacro alla dea Artemide, sacrificando la figlia Ifigenia, per far sì che il vento riprenda a gonfiare le vele delle navi in rotta verso Troia. Nel film, un chirurgo col vizietto dell'alcol, per errore provoca la morte di un paziente. Il figlio della vittima, scoperta la verità, deciderà di mettere in atto una strana e crudele vendetta. Farrel fu sul punto di rifiutare la parte dopo aver letto il copione considerato troppo forte anche per lui abituato a ruoli difficili, ma poi accettò la parte insieme alla Kidman. Molti grammi di puro terrore, si devono al volto e alla bravura di Barry Keoghan, attore irlandese come Farrel, che subito dopo fu assoldato da Nolan per Dunkirk.